Non è ancora chiaro cos’è accaduto ieri, domenica 11 aprile, a Natanz, in Iran. Il complesso di arricchimento dell’uranio, fulcro del programma nucleare iraniano, ha registrato un “incidente”, ma ben presto le autorità hanno parlato di “terrorismo nucleare”, accusato Israele della responsabilità e giurato vendetta. Inizialmente si è parlato di un blackout, poi è emerso che sono state danneggiate delle centrifughe e che occorreranno nove mesi per ripristinare la produzione.
Con ogni probabilità, però, l’episodio è da annoverare nella crescente tensione tra i due Paesi, con un ruolo non secondario giocato dagli Stati Uniti.
Nucleare, l’escalation di tensione con lo sfondo del ritorno all’accordo di Vienna
L’impianto di Natanz non è nuovo a “problemi”. Nel luglio del 2020 ci fu già un’esplosione e nel novembre scorso fu ucciso lo scienziato Mohsen Fakhrizadeh, un omicidio di cui l’Iran ha attribuito la responsabilità a Israele.
L’incidente di ieri giunge al termine di una settimana di colloqui a Vienna proprio per salvare l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, da cui gli Stati Uniti uscirono nel 2018 su richiesta di Israele e sotto la guida di Donald Trump.
«La questione rientra in un gioco delle parti per ritornare all’accordo sul nucleare, che sta diventando una specie di lungo percorso ad ostacoli – spiega ai nostri microfoni Giuseppe Acconcia, giornalista e ricercatore di questioni mediorientali all’Università di Padova – Il neo-presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sulla scia delle decisioni prese da Barack Obama, vorrebbe che si tornasse all’accordo di Vienna».
Il punto, però, è che le parti in causa, Stati Uniti e Iran, aspettano che siano l’altro a fare la prima mossa. In particolare, gli Stati Uniti si aspettano che l’Iran riduca l’arricchimento dell’uranio, giunto al 20% nonostante il tetto del 5% fissato dall’accordo sul nucleare. L’Iran, invece, aspetta che gli Stati Uniti ritiri le sanzioni, che vengono definite un embargo.
A complicare il tutto è il dibattito interno agli Stati Uniti, che vede i repubblicani, ma anche parte dei democratici, non così favorevoli al ritorno dell’accordo di Vienna. In particolare, una parte del Congresso a stelle e strisce vorrebbe che nella redifinizione dell’accordo venissero inseriti anche altri punti, come il controllo del programma balistico iraniano e il ruolo del Paese nei conflitti regionali, come quello in Yemen.
Per contro, l’Iran accusa gli Usa di militarizzare la regione, anche se un piccolo passo avanti proprio da Biden è stato fatto, con lo stop alle forniture militari ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, proprio in virtù del loro ruolo nella guerra in Yemen.
«Ci sono degli elementi che fanno sperare che si possa ritornare all’accordo di Vienna – osserva Acconcia – Lo stesso Robert Malley, l’inviato speciale statunitense per l’Iran, ha parlato di una road map. In questa fase c’è una specie di gioco a chi comincia per primo, ma nessuno dei due attori hanno interesse a fare la prima mossa nella sua completezza. Quindi è necessario che le due parti si accordino per sincronizzare i tempi nel riprendere il dialogo sul nucleare».
La partita, però, potrebbe subire un’accelerazione positiva perché l’Iran non ha interesse ad andare per le lunghe. A giugno si terranno le elezioni presidenziali e un ritorno all’accordo di Vienna potrebbe essere considerato un grande successo dalla parte moderata iraniana, che fa capo ad Hassan Rouhani, l’attuale presidente in carica dal 2013.
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