Anche se non ha trovato tantissimo spazio sui media mainstream, il suicidio di Musa Balde, il 23enne della Guinea che si è tolto la vita nel Cpr di Torino, ha creato indignazione e rabbia. A rendere ancora più assurda la vicenda è che il ragazzo è stato vittima di un violento pestaggio a Ventimiglia, ma è l’unico che ha pagato le conseguenze, venendo trasferito nel centro di detenzione amministrativa da dove sarebbe poi stato espulso dall’Italia.
Oltre al senso di ingiustizia per la tragica fine del giovane, la vicenda riapre il tema dell’inumanità di queste strutture dove finiscono recluse persone che non hanno commesso alcun reato penale e che, oltre alla privazione della libertà, non vedono garantirsi nemmeno la più basilare assistenza.

Cpr, i lager che piacciono a destra e sinistra

Gli attuali Cpr (Centri per il Rimpatrio) sono il terzo nome assunto da strutture di detenzione amministrativa per migranti sprovvisti di permesso di soggiorno di cui l’Italia si è dotata. Ad averle introdotte in Italia, nel 1998, fu il centrosinistra con la legge Turco-Napolitano e originariamente si chiamavano Cpt (Centri di Permanenza Temporanea). A cambiare nome fu il governo Berlusconi nel 2008, che li ribattezzò Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione). Il nome attuale, infine, fu deciso di nuovo dal centrosinistra, in particolare dal ministro Marco Minniti.
Nella sostanza queste strutture non hanno mai cambiato formula. Ciò che è variato è il tempo di permanenza delle persone che vi vengono recluse.

Negli anni associazioni antirazziste e organizzazioni della società civile hanno dato battaglia contro queste strutture. Clamoroso, in questo senso, fu lo smontaggio del Cpt di Bologna avvenuto nel 2002 da parte di realtà antagoniste.
La lotta, però, ha assunto diverse forme ed è continuata fino a quando i Cie non sono stati chiusi in molte città italiane, salvo poi farvi spesso ritorno col nome di Cpr.
L’accesso alle strutture è sempre stato interdetto ai giornalisti, ma anche agli amministratori locali. È anche dal bisogno di trasparenza su ciò che accadeva (e accade) in quelle strutture che è nata la campagna Lasciatecientrare, che oggi sta seguendo da vicino la vicenda del suicidio di Musa Balde.

Musa Balde e gli altri: la mancata assistenza alle persone fragili

Nel ricostruire la vicenda di Musa Balde, Lasciatecientrare sottolinea che le difficoltà vissute dal ragazzo erano note all’amministrazione del Cpr. “L’ultima persona ad avere parlato con lui è stato il suo avvocato difensore, Gianluca Vitale che, notando la fragilità del suo stato psicologico aveva infatti chiesto una perizia a un importante centro che si occupa di vulnerabilità psichica dei migranti – scrive Francesca Mazzuzi sul sito di Lasciatecientrare – Balde non ce l’ha fatta, non ha resistito e sabato notte si è tolto la vita”.

Nello stesso articolo vengono ricostruite altre vicende che hanno portato alla morte di migranti reclusi nei Cpr, anche nella stessa struttura di Torino. Nel luglio del 2019 perse la vita Hossain Faisal, bengalese di 32 anni, vittima di violenza all’interno dello stesso centro e posto in isolamento punitivo per 22 giorni, senza possibilità di chiedere aiuto visto che i campanelli di allarme vicino ai letti non erano funzionati.
Nel luglio del 2020 un giovane albanese incensurato, Orgest Turia, perse la vita per overdose di metadone nel Cpr di Gradisca. “L’avvocato difensore incaricato dalla famiglia ha sollevato perplessità su come il giovane potesse essere entrato in possesso di quella sostanza e per di più in quantità tale da provocare la morte – scrive ancora Mazzuzi – Ma questa domanda attende ancora una risposta”.
Ancora: nel giugno del 2019, nel Cpr di Brindisi si è tolto la vita Harry, ventenne nigeriano che aveva un problema psichiatrico di cui nessuno ha tenuto conto.

La reclusione di persone per una semplice irregolarità amministrativa difficilmente viene compresa. In aggiunta a ciò, le dure condizioni di vita all’interno dei Cpr, mettono a dura prova la capacità di resistenza psicologica delle persone recluse e la vulnerabilità e sofferenza che provano non viene riconosciuta perché lo scopo primario di quei luoghi non è offrire assistenza, ma perseguire le politiche xenofobe dello Stato.