Il 70% di chi ha votato ha scelto formazioni politiche xenofobe. L’analisi del voto non conta più nulla: tutte le categorie hanno votato a destra e nessuno degli sconfitti sembra intenzionato a fare un mea culpa. Molto meglio, allora, ragionare subito su cosa fare tutte e tutti per cambiare il senso comune in chiave umanista e solidale.

Con le schede elettorali ancora calde, è già partito lo stanco rituale dell’analisi del voto, che non è mai servito a niente. Gli sconfitti non hanno interesse a capire e fare autocritica, perché le loro classi dirigenti verrebbero messe all’indice per le scelte che hanno compiuto, uscendone deligittimate.
Del resto è ormai abitudine, di fronte a un provvedimento o una legge che la cittadinanza ritiene sbagliata, sentirsi rispondere per cinque anni con uno sbrigativo “giudicheranno gli elettori” alla fine della legislatura. Ma quando gli elettori giudicano in modo severo nelle urne, la colpa viene scaricata su fattori esterni, come mancate alleanze, ruolo dei media e altre scuse.

In casa Pd questo esercizio è già cominciato: Renzi e dem di qualunque corrente hanno già puntato il dito contro LeU. Poco importa se la somma delle forze politiche di quello che fu il centrosinistra, ora diviso, risulti inferiore al già magro risultato ottenuto dalla coalizione capeggiata da Pierluigi Bersani nel 2013.
Mai un mea culpa, mai un’ammissione di responsabilità, mai una riflessione sui provvedimenti presi e sulle politiche portate avanti.
Niente di niente. Anzi, un’arroganza e un disprezzo verso la cittadinanza stessa, accusata di aver decretato la morte della sinistra con il voto contrario al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
La colpa è sempre degli altri, che nel migliore dei casi non hanno capito la bontà delle scelte effettuate. Patetico.

Ormai inutile è anche l’analisi socio-demografica del voto. Con un 70% di chi ha votato che ha scelto forze di orientamento xenofobo, è fin troppo evidente cosa vota l’operaio, il pensionato, la donna lavoratrice o lo studente. La stragrande maggioranza odia gli stranieri o comunque sostiene formazioni che avanzano proposte razziste e xenofobe, sebbene con accenti diversi.
Lo stesso si può dire dell’atteggiamento nei confronti dell’Europa e il punto è che in entrambi i casi è l’atteggiamento delle istituzioni di vario livello, sospeso tra l’ambiguità e la chiusura, ad aver incentivato questa risposta.

Sarebbe dunque meglio cambiare la domanda che ci poniamo in questo triste giorno dopo, in cui la disperazione e la paura rischia di prendere il sopravvento.
Non più un “com’è successo?”, ma un ben più utile “che fare ora?”.
Rispondendo ad entrambe le domande, in realtà, non dobbiamo correre il rischio di deresponsabilizzarci. Se è giusto rifiutare le colpe che ci scarica addosso una politica miope e chiusa in un fortino sempre più assediato, non possiamo pensare di avere la coscienza a posto su quello che sta accadendo là fuori. Non possiamo perché forse è anche un po’ colpa nostra, della nostra pigrizia, della nostra inazione, del nostro snobismo, della nostra crescente tendenza a commentare sui social rispetto al fare qualcosa.

Non possiamo, del resto, pensare che sia qualcun altro a “risolvere” la situazione, perché se siamo esseri umani con un minimo di empatia, di senso di giustizia, di spirito di fratellanza e solidarietà, dobbiamo essere consapevoli che la vita per molti è già dura e con gli scenari che si prospettano sarà sicuramente peggio. Anche la nostra, sul medio periodo, peggiorerà.
Dobbiamo avere presente tutto questo e agire di conseguenza. La prima cosa da fare è proprio questa: attivarci. L’equilibrio del corpo sociale è già sbilanciato dalla parte del burrone e non c’è più tempo da perdere.
Occorre dunque cominciare a fare qualcosa che torni a spostare il senso comune verso un’idea umanista e solidale, riflettendo contemporaneamente sul cosa sia meglio, sul come, e tarando il nostro intervento di conseguenza.
Però cominciamo. Adesso.