Alla vigilia dell’8 marzo, Marta Collot, portavoce nazionale di Potere al Popolo, racconta pubblicamente la violenza di cui è stata vittima e l’assurda piega giudiziaria che la vicenda sta prendendo. Nonostante ripetute denunce per stalking nei confronti di un soggetto che la perseguitava e nonostante un arresto cautelare dello stesso, il Gup del Tribunale di Bologna ha deciso il non luogo a procedere nei confronti dell’uomo, decisione che verrà impugnata dalla Procura.
Uno stalker perseguita Marta Collot, ma il Gup non lo processa
Tutto comincia nel 2019, quando Collot è fatta oggetto di messaggi e tentativi di approccio insistenti da parte di un uomo, che diffonde anche un fotomontaggio della donna. In quel caso le autorità considerano la vicenda come un corteggiamento non gradito, come ricostruisce l’avvocata Marina Prosperi che assiste Collot. Negli anni a venire, però, il problema si ripete e la donna presenta nuove denunce in seguito a ulteriori messaggi, ma anche minacce e appostamenti. Al punto che per lo stalker viene anche deciso un arresto cautelare.
La vicenda, però, subisce una brusca virata lo scorso primo marzo, quando per il persecutore viene deciso il non luogo a procedere da parte del Gup.
Una decisione che appare profondamente ingiusta nei confronti di Collot, che per mettersi al riparo dalla persecuzione ha dovuto anche cambiare casa e abitudini.
«Ancora una volta si dimostra come, al di là della retorica, in questo Paese esistano due pesi e due misure rispetto alla giustizia nelle aule di tribunale – ha osservato l’attivista – Davvero dobbiamo aspettare che una donna venga ammazzata per poter dare valore alle molestie? Davvero dobbiamo ancora subire processi in cui veniamo colpevolizzate per essercela cercata mentre l’uomo violento viene dipinto come vittima di troppo amore o in preda a una tempesta emotiva?».
Marta Collot racconta lo stupro subito tre anni fa: «Non mi ha piegata»
Attorniata dal calore delle compagne e dei compagni, questa mattina Collot ha anche trovato il coraggio di raccontare che non è il primo episodio di violenza che ha subito. Tre anni fa, infatti, fu stuprata in un parchetto in via Parri, in Bolognina, ma fino ad oggi non ha voluto raccontare che la vittima della violenza era lei.
«Quella vicenda si è conclusa con la sentenza di condanna al massimo della pena – ha raccontato l’esponente di PaP – nonostante la richiesta del pm fosse molto inferiore. Una sentenza che è arrivata dopo mobilitazioni nel quartiere, dopo presidi sotto al tribunale, dopo che grazie al mio avvocato siamo riuscite a portare la voce della “vittima” dentro le aule del tribunale, in cui ho potuto dire in faccia al mio stupratore ciò che penso: che ha approfittato del suo vantaggio fisico, ma che non mi sono mai piegata, perché quello che questi uomini non sanno è che qualcosa che rende più forti di qualsiasi forza fisica. Si chiama lotta e si chiama organizzazione».
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La solidarietà della vicesindaca Clancy
Emily Clancy, vicesindaca di Bologna con delega alle Pari opportunità e alla Lotta alla violenza e alla tratta sulle donne e sui minori, esprime solidarietà alla portavoce nazionale di Potere al popolo, Marta Collot.
«”Lo stupratore non è un malato, è figlio sano del patriarcato”, hanno gridato tante volte negli ultimi anni, a ragione – dichiara Clancy – le femministe di Non Una Di Meno. La mia più profonda solidarietà a Marta Collot, che ha dovuto vivere sulla propria pelle ripetutamente il volto più orrendo e ignobile di una società patriarcale: la violenza di genere, la supremazia violenta dell’uomo sulla donna nelle forme dello stalking e dello stupro. La ringrazio per la forza di aver denunciato quanto le è accaduto e di non aver perso la tenace volontà di continuare a cercare giustizia nelle aule del Tribunale”.
Nel mondo, continua la vicesindaca, «almeno una donna su tre ha subito violenza, fisica o sessuale, e troppo spesso leggiamo di uomini maltrattanti giustificati e normalizzati nei loro comportamenti, mentre quelli delle donne vengono dissezionati sotto a una lente d’ingrandimento, quando non sfociano in processi di victimblaming, dai media e anche nelle aule di giustizia». Conclude Clancy: «È anche grazie a gesti come questo, di collettivizzazione del proprio vissuto di violenza, che si dà la forza ad altre donne di farsi avanti e domandare giustizia per ciò che è loro accaduto».