L’applauditissimo Daniel Oren riesce a far arrivare al cuore dell’uditorio la forza della musica verdiana di quest’opera tra le meno conosciute dal pubblico, con una direzione appassionata, incalzante che esalta ogni sfumatura della partitura sia a livello strumentale che vocale a partire dall’irruente Sinfonia. La regia del neofita della lirica marionanni è stata intesa solo come light design senza il minimo interesse e cura per i rapporti tra i personaggi, l’esppressività dei corpi e la loro relazione e risulta insopportabile.

Fare una regia non è piazzare degli artisti sul palco lasciandoli agire in una bella scatola di luci colorate. Il progetto di marionanni mirava all’arte totale, come scrive nelle sue note di regia coniugando pittura, architettura, fotografia, musica, movimento e materia orchestrati dallo strumento luce. Quello che risulta è un guazzabuglio di costumi che non hanno un minimo di coerenza; apparizioni del coro dal nulla non motivate a livello scenico in alcun modo dalla situazione e altrettanto immotivate uscite dellle masse artistiche a comando, senza una giustificazione narrativa che non sia il fatto che in quel momento dovevano entrare e cantare, un uovo (forse simbolo di perfezione e pureza ricavate da quadri rimascimentali?) a mezzo cielo tra le nuvole che diventa bianco e nero a seconda che la situazione si volga al “bene” o al “male”, proiezioni di coste di libri antichi che all’occorrenza paiono anche ciminiere o grattacieli e cerchi luminosi che si spostano per il palcoscenico diventando sole, o forse fonte del potere o della malvagità. In tutto questo gioco di luci si perdono completamente i temi della contrapposizione sociale e generazionale espressi in quest’opera derivata da una trama di Shiller, la concentrazione solo sull’estetica della luce ha fatto perdere completamente il senso della cura delle relazioni tra personaggi, la motivazione psicologica, narrativa dei movimenti sia dei solisti che delle masse. E così appare una regia museale, statica, incoerente in una modernissima scatola che permette giochi luminosi mirabolanti.

Lo strano pubblico di abbonati pare aver apprezzato quella staticità che per lo meno non creava dubbi,non insinuava domande, non costrungeva spettatori e spettatrici a mettersi in discussione, a pensare, riflettere sui cardini della società come invece imponeva il precedente allestimento in cartellone, “Lucrezia Borgia”, per la regia di Silvia Paoli, contestata tanto da non far uscire regista e costumista a fine spettacolo. Qui la regia non voleva far discutere, nè insinuare dubbi, solo ammaliare con luci distraenti dall’incapacità di lavorare a fondo sui personaggi e quindi sugli artisti.

Così è mancata un vero lavoro sulla contrapposizione dei due padri, non emerge critica al potere e al rispetto delle convenzioni sociali che impongono alla pura, vera, e infine eroica Luisa, di sacrificarsi per amore.

Per fortuna che la partitura musicale alla fine ha prevalso sull’inconsistente lavoro sui corpi e le relazioni tenendo in piedi lo spettacolo grazie alla direzione efficace di Oren e alla bravura degli artisti in scena che vocalmente hanno supplito alla brutta regia.

Su tutti è stato applaudito il tenore Gregory Kunde nei panni di Rodolfo che ha scatenato più volte l’uditorio in ovazioni a conclusione delle sue arie in cui, tra l’altro, Verdi inserisce i più raffinati elementi belcantistici di eco doninzettiano. La partitura mette poi in luce le tre voci gravi dei ruoli del Conte di Walter (Marko Mimica), Miller (Franco Vassallo) e Wurm (Gabriele Sagona). Dei tre interpreti il più apprezzato è stato sicuramente il baritono Franco Vassallo che nonostante sia stato presentato in scena in un abito più da signorotto benestante anzichè di umile militare in pensione, perdendo la contrapposizione di classe con l’altro padre, vocalmente esprime la drammaticità e la malinconica sconfitta di un padre amorevole che non riesce ad assicurare la felicità della propria figlia perchè travolto dalle trame di un potente contro il quale non ha armi.

Myrtò Papatanasiu come Luisa è credibile e vocalmente ineccepibile. Nel suo abitino candido (astraendoci dalla foggia che pur piacevole, era incoerente con gli altri costumi), definito dal regista color bigio, il bianco sporco, usato nella pittura rinascimentale per i santi e bambini, è stata capace di raccontare il travaglio di una giovane che inizialmente è entusiasta del suo affacciarsi alla vita e all’amore decisa a sfidare le convenzioni sociali amando liberamente un giovane di una codizione sociale superiore alla sua, poi è costretta a cedere agli intrighi orditi a suo danno e infine accetta il sacrificio con consapevolezza e maturità, accogliendo anchela morte per amore.

Il questa opera in cui Verdi indaga i sentimeti privati, borghesi, le dinamiche affettive, lasciando situazioni più epiche, emerge per la prima volta un personaggio femminile che lotta per la sua autodeterminazione, per decidere autonomamente chi amare e cosa fare della propria vita, anche se questa decisione la porta alla rinuncia della stessa vita. L’eroismo di Luisa conduce la vicenda a un culmine tragico dello sguardo dei due padri davanti ai cadaveri dei due figli. Tutto questo, in questa messa in scena, succede solo musicalmente, mentre i corpi e le azioni dei due padri, non arrivano ad esprimere quello che la musica e il testo del libretto prevede che scenicamente accada.

Paradossalmente la regia ha insistito sul rendere visivamente le parole del testo del primo atto scena undicesima in cui Miller racconta la situazione della figlia “prostrata” e “oppressa”, “genuflessa d’un superbo alla presenza” e continuamente Luisa è mostrata in ginocchio, quasi strisciante, spesso implorante. Meno evidente, registicamente, la sua evoluzione come donna e proprio il suo eroismo.

Meraviglioso musicalmente il quartetto a voci sole (Presentarti alla Duchessa) di Luisa con controcanto sillabato, spezzettato, sospirato del padre, Wurm e Federica e l’applauditissima aria di Rodolfo (Quando le sere al placido).

Nota al margine è interessante come il libretto di Cammarano, seguendo la tragedia shilleriana, metta in contrapposizione la scelta di Luisa tra il partire con il padre verso una vita di povertà e la scelta della morte per amore e come sul finale in pratica Rodolfo, geloso, credendola una traditrice, in pratica le dica che o sarà sua o di nessun altro, una frase che tristemente sentiamo pronunciare da molti femminicidi/suicidi che antepongono la vendetta alla felicità della donna che sostengono di amare, ma che di fatto uccidono. E’ triste che nulla sia cambiato a distanza di secoli e che quella mentalità da “o mia o di nessun altro”, si riesca a scalzare. Non interessava certo all’equipe che ha realizzato la messa in scena evidenziare qessto aspetto cruciale nel dibattito sociale odierno, al di là di questa notazione la rappresentazione porta in scena una partitura interessante, meno rappresentata rispetto ad altri titoli verdiani, con momenti di alto valore e potenza musicale. Il linguaggio del libretto di Cammarano, così fortemente voluto da Verdi come librettista per Luisa Miller come l’epistolario recentemente acquistato all’asta dallo stato italiano ha evidenziato, risulta ricco di parole ricercate e dal suono oggi arcaico, ma esaltato dalle preziosità timbriche, dalla emozione suscitata dalla musica, ogni frase emerge nella sua lirica bellezza. La regia da dimenticare, le voci tutte degne invece di plauso e una direzione trascinante.