Una grande Olga Peretyatko interpreta Lucrezia Borgia di Donizetti al Teatro Comunale di Bologna diretta dal Maestro Yves Abel per la regia di Silvia Paoli che rilegge l’opera proponendo Lucrezia Borgia come vittima della società patriarcale che l’ha usata a fini politici fin dal suo primo matrimonio a 12 anni, facendo di lei una persona capace di rapportarsi al mondo solo attraverso la violenza appresa da chi la circondava e riscattata solo dal legame materno.
Intensa interpretazione quella di Olga Peretyatko nella nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna coprodotta dall’Auditorio di Tenerife, Opera de Oviedo e Teatro de la maestranza di Siviglia. La soprano russa incanta l’uditorio con la sua presenza scenica, la sua voce pastosa, avvolgente e capace di agilità vertiginose, meritando applausi continui e convinti. L’orchestra del teatro bolognese è diretta dal maestro Yves Abel, dal gennaio 2015 Direttore Musicale della Norwestdeutsche Philarmonie (NWD), che riesce a trasmettere la drammaticità delle diverse situazioni sceniche con ritmi incalzanti da cui emergono sonorità talora allegre, vivaci, della partitura di Donizetti che, nel contrasto, sottolineano la cupezza dei testi e la gravità degli atti commessi dai protagonisti. Plauso anche al coro maschile in scena, guidato dalla Maestra Gea Garatti Ansini, recentemente insignita del premio Tina Anselmi da UDI Bologna che va a donne che in città si sono particolarmente distinte per il loro impegno sociale e culturale.
Quest’ opera approdata alla Scala come apertura della stagione del carnevale del 1833 quasi per caso, grazie alla presenza a Milano di Donizetti al momento in cui si defilarono gli autori designati per la preparazione di un’altro titolo che doveva aprire il cartellone, è tratta dalla tragedia omonima di Victor Hugo che ha tratteggiato Lucrezia come assassina e avvelenatrice inchiodandola per sempre a uno stereotipo lontano dalla verità storica accertata. Donizetti e il librettista Felice Romani lavorando sul testo di Hugò piuttosto che sui documenti storici esistenti su Lucrezia fanno di lei l’emblema della deformità morale che viene illuminata solo dal sentimento materno così come la deformità fisica di Rigoletto viene contrastata dalla paternità. Se uomini come Hugo, Romani e Donizetti hanno raccontato Lucrezia Borgia come come infame, spergiura, malvagia,venefica e cruda, solo per citare alcuni dei termini a lei riferiti nel libretto, l’intento della regista della messa in scena, Silvia Paoli, è quello di far apparire Lucrezia come vittima del sistema sociale che è oggi, come nel ‘500 basato su rapporti di forza tra uomini e donne totalmente sbilanciati a sfavore delle donne.
La violenza di un genere su un altro è strutturale nella nostra società. Se la Convenzione di Istanbul lo ha affermato chiaramente costringendo i Paesi firmatari a legiferare per prevenire, proteggere e sanzionare la violenza maschile sulle donne, questi concetti poi devono pencolare nel tessuto sociale e cosa meglio dell’arte può toccare nel profondo donne e uomini?
Silvia Paoli non si è voluta nascondere, ha affermato, dietro i velluti di un’ambientazione nel lontano ‘500 lasciando la figura di Lucrezia in un lontano passato di vendette familiari, di omicidi per scopi politici, ma ha voluto esplicitare come la violenza di cui ella è capace in questo libretto è frutto di quello squilibrio di potere tra i generi che ha fatto sì che le donne, in ogni tempo, venissero usate come corpi di cui servirsi per colmare appetiti sessuali o per ragioni di stato, e i gesti violenti di cui sono state o sono capaci sono da loro stati introiettati perchè nutrite di quella violenza nei rapporti familiari fin dalla più tenera età. Quel nutrimento a base di violenza è divenuto anche per il sesso femminile un linguaggio attraverso cui comunicare finanche la propria disperazione di vittime.
La regia ha predisposto la scenografia come uno spazio psicologico in cui si muovono i personaggi: un mattatoio al cui interno si consumano violenze, in cui le donne vengono trattate come bestie da macellare dopo l’uso. Così vediamo Lucrezia bambina durante la sinfonia iniziale, che viene data sposa a un lupo cattivo che la stupra, come ogni sposa bambina anche nel nostro presente, giocando con lei a cappuccetto e il lupo. Le pareti imbrattate di sangue raccontano quella violenza psicologica e fisica gicoata sul corpo delle donne. E ancora donne usate dalla truppaglia per colmare appetiti sessuali in un bordello rappresentato da mimi e mime della Scuola di teatro Alessandra Galante Garrone. In un altra scena le mime rappresentano donne prede di guerra messe in gabbia e stuprate a turno dai soldati, come avviene da secoli in ogni guerra. Stupro come arma nei conflitti, donne cacciate e raccate come prede. Questo concetto è stato esplicitato senza mezzi termini dalla regista che iserisce nel mattatoio una gabbia pieda di donne in sottoveste, scudisciate col frustino come belve e prese dalla truppaglia a turno. A fine scena si sono uditi dei “buu” e un forte “vergogna” da voci maschili. Quelle grida dal pubblico, di voci tutte maschili, sono risuonate quasi come il grido di chi non sopporta che venga loro mostrata la verità dei rapporti di forza esistenti nella società, come se fossero scandalizzati dal veder rappresentata la violenza perpetrata da sempre sui corpi delle donne da parte degli uomini, come se dicessero “vergogna” al loro stesso genere per aver concepito le donne come oggetto. Quelle grida, sono suonate come se quegli uomini si fossero vergognati di sé, più che dello svelamento registico di quei meccanismi sociali sottesi al rapporto tra i sessi. Subito dopo, dalla sala, è partito un applauso a sipario chiuso a sostenere invece l’interpretazione registica e la piacevolezza della musica e dell’interpretazione degli e delle artiste sul palco.
E’ vero che a fine spettacolo nè la regista, nè lo scenografo Andrea Belli nè la costumista Valeria Donata Bettella, sono usciti per gli applausi per non scatenare forse ancora quanti non hanno gradito la messa in scena ambientata non nel lontano ‘500, ma in epoca fascista proprio a voler avvicinare a noi la vicenda, scegliendo un periodo storico in cui quei rapporti di forza e quella violenza verso le donne è stata esplicita e fondante della politica di stato. La donna, madre, doveva partorire figli da mandare in guerra e restare confinata all’ambito domestico, ovvero “al proprio posto”. In quella società che ha esaltato la virilità, il potere maschile poteva essere “esercitato senza controllo e diventare perverso ed esaltato” afferma Paoli nelle note di regia. Così la truppa che si accanisce sui corpi delle donne in gabbia, ci ricorda molto da vicino le violenze di fascisti e nazisti sui corpi delle deportate o delle ribelli sovversive, come anche i recenti stupri in Ucraina.
Personalmente ho trovato estremamente convincente la regia, l’ambientazione nel periodo fascista, la scelta scenografica di un mattatoio al posto delle sale di una sontuosa corte, visto che quanto avviene è, a tutti gli effetti, un massacro. Funzionale all’esplicitazione dei rapporti di forza la scena ambientata nello studio di Alfonso I D’Este dove troneggia un’aquila nazista e Alfonso è seduto ad un’enorme scrivania in stile fascista. Sullo sfondo si intravedono dipinti in stile rinascimentale, a prevalenza di figure rosse, con Papi e madonne. Lucrezia, figlia illegittima di Papa Alessandro VI, data in sposa bambina e poi passata di mano 4 volte non certo per amore, ma per ragioni politiche, è chiaramente succube del potere di Alfonso. Non le viene offerta nessuna scelta, non ha alternative all’uso della violenza. Per sfregio e crudeltà le è dato solo scegliere se uccidere Gennaro con la spada o il veleno.
Nessun personaggio ha scampo in quest’opera, ovunque strade sbarrate, porte sbarrate, devono soccobere in un modo o nell’altro. Tranne Lucrezia, nessun’altra donna è parlante, nessun’altra prende parola, non le dame alla festa, nessuna corigiana. Solo agli uomini è concesso diritto di parola e, quando è esercitato su Lucrezia è per insultarla, farle violenza per l’appunto verbale. Le parole feriscono come la spada, da lì non era così difficile reinterpretare le offese rivolte alla potente Borgia a Venezia, nel prologo, dai cinque assalitori (Orsini, Livoretto, Vitellozzo, Petrucci e Gazella), come uno stupro di gruppo di cui lei si vogla vendicare sul finale, avvelendandoli. Se nella vita si respira solo violenza, quella è la lingua che si pratica. Lucrezia pratica la vendetta, che ancora una volta le si ritorce contro avvelenando anche il figlio Gennaro che rifiuta l’antidoto per condividere la sorte con gli amici e commilitoni. Lucrezia prova affetto unicamente per quel figlio nato dalla violenza del primo matrimonio e dato in adozione. Nel cercare di proteggerlo e di stargli accanto lo coinvolge nella spirale di violenze di cui è intessuta la sua realtà. La maternità riscatta la sua deformità psicologica facendola apparire amorevole, piena di incondizionato affetto per il giovane, ma la società è talmente intrisa di violenza da non concedere spazio alla bellezza, alla purezza di quell’amore tra madre e figlio, un lieto fine è impossibile. Spenta la luce negli occhi del figlio, solo la morte può acquietare il dolore di Lucrezia, il suo cuore, la sua parte di umanità, è morta con Gennaro.
Questa partitura donizettiana che, come l’ha definita Valentino Corvino nella presentazione occorsa nel Foyer Rossini, “è meno melodica e più ritmica e accentata” delle opere precedenti, cambia l’orizzonte del melodramma ottocentesco e prepara il terreno a Verdi, che tanto assorbirà dalle scene del suo predecessore. Melodie struggenti, toni cupi, inquieti immettono l’uditorio in una realtà dominata dalla violenza. Rapidi passaggi in crescendo, staccati di tensione ad esempio portano ad una frase emblematica pronunciata da Alfonso “in mia mano tu sei” della scena 5° del primo atto, parole che precedono immediatamente la già citata scelta offerta a Lucrezia, per la sorte del di lei creduto amante, in realtà senza alernative, tra “di veleno o di spada morir” .
La messa in scena in epoca fascista che esplicita la violenza insita nei rapporti sociali, nelle trame di potere e nei rapportaia uomo/donna, non sminuisce la carica emotiva della musica di Donizetti, a mio avviso la esalta rendendo emozionante questo spettacolo, facendo sentire attuale, affar nostro, questa trama e ciò che porta alla luce. Non è una rappresentazione epoche lontane, è uno spettacolo che narra a noi nel 2022 della difficoltà per una donna di esercitare il potere, della violenza che ingabbia uomini e donne in ruoli stereotipati e che domina i loro rapporti. Come è stato ribadito nella presentazione dello spettacolo, il pubblico oggi non ha bisogno di cose facili, occorre dare interpretazioni complesse dei testi che si mettono in scena lanciando dei messaggi chiari. Non è tempo di opere liriche in stile museale. E’ tempo di rendere visibile anche il maschilismo di queste trame, di ragionarci sopra, di utilizzare musica e testi per costruire la società presente e futura su nuove basi, senza ripudiare l’arte del passato che ha ancora tanto da dirci e può emozionarci in modo nuovo proprio svelando le similitudini tra le epoche per emanciparci da quella realtà e rinnovarla.
Nessuna e nessun componente del cast deve vergognarsi per quanto è stato rappresentato sulla scena. Dobbiamo tutti vergognarci per come sono andate le cose nel mondo reale per secoli, per le violenze perpetrate sui corpi delle donne e per come è stato reso tossico il il pensiero del maschile e sul maschile. Gli spettatori di sesso machile che hanno gridato “vergogna” hanno colpito nel segno, seppure il loro grido andava rivolto alla mentalità sessista che ha generato quelle relazioni basate sulla violenza tra uomini e donne.
In scena fino al 13 maggio con alternanza di due cast nei diversi ruoli: ad Olga Peretyatko si sostituirà Marta Torbidoni domenica 8, mercoledì 11 e venerdì 13, a Marco Palazzi, nel ruolo di Alfonso I D’este, Davide Giangregorio, A Stefan Pop nel ruolo di Gennaro Francesco Castoro e a Lamia Beuque, nei panni maschili di Maffio Orsini si alternerà Nicole Brandolino.