Che sia dentro la sezione “Sestante” del carcere di Torino, dove i detenuti psichiatrici vengono tenuti in condizioni indegne, o nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, dove per le violenze e i pestaggi dell’anno scorso 108 agenti finiranno a processo, il carcere italiano continua a mostrare tutta la sua disumanità, abdicando in questo modo al dettato costituzionale secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

La disumanità della sezione “Sestante” di Torino

In seguito ad una visita compiuta la settimana scorsa, Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, ha denunciato la situazione gravissima che si registra nella sezione “Sestante” del carcere di Torino, quella riservata ai detenuti psichiatrici.
Persone lasciate al buio per giorni, costrette a vivere in piccole celle completamente spoglie, a volte prive di coperte, sedati pesantemente con farmaci, costrette a espletare i propri bisogni corporali in turche senza riservatezza e, in un caso, completamente ostruite. Sono solo alcuni dei dettagli del resoconto di Marietti.

«Sono 25 anni che visitiamo tutte le carceri d’Italia – osserva ai nostri microfoni la coordinatrice di Antigone – Non è che non siamo abituati alle condizioni di degrado che purtroppo accompagnano la detenzione in Italia. Ma il reparto “Sestante” veramente va oltre e questi esseri umani rinchiusi là dentro sono privati, oltre di qualsiasi bene materiale perché vivono in celle dalle condizioni igieniche pessime e praticamente vuole, di qualsiasi progettualità. Non c’è nessuna presa in carico per loro».
Marietti sottolinea anche il pesante ricorso ai farmaci per sedare i detenuti e sottolinea come la psichiatria non merita queste situazioni.

In seguito anche al clamore della denuncia di Antigone è arrivata la notizia che la sezione “Sestante” del carcere di Torino verrà chiusa e ricostruita da cima a fondo. «Non credo che con questo il problema sia risolto – osserva Marietti – Anche se si spostano quelle persone in un altro reparto, magari dove non c’è la turca a vista, ma dove vengono comunque abbandonate imbottite di farmaci non è una soluzione».
Quella di Torino è la situazione più eclatante, sottolinea la coordinatrice di Antigone, ma anche in altre carceri sono presenti sezioni psichiatriche e spesso la presa in carico si riduce all’imbottimento di farmaci. E chiede che ci sia un segnale politico su un controllo da parte delle Asl rispetto ai medici che vengono mandati in carcere e sulle cure che vengono praticate, così come un controllo sull’amministrazione penitenziaria.

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108 agenti non possono essere “poche mele marce”

È della settimana scorsa la notizia che il prossimo 15 dicembre si terrà l’udienza preliminare per il processo sui pestaggi, le violenze e gli abusi da parte della polizia penitenziaria, avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo che il Domani aveva pubblicato i video relativi ai pestaggi dei detenuti, la vicenda ha subito una svolta giudiziaria e ora la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 108 tra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria.
I reati contestati a vario titolo vanno da tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino.

«Per la prima volta in Italia abbiamo a processo un numero molto alto di agenti di polizia penitanziaria – osserva ai nostri microfoni Valerio Guizzardi dell’associazione Papillon – Non abbiamo precedenti di questo tipo specifico, ma l’esperienza di processi così grandi dice che se la cavano praticamente tutti, salvo qualche capro espiatorio a cui scaricare le responsabilità».
Un ulteriore elemento che arriva dalla vicenda di Santa Maria Capua Vetere, però, è la messa in discussione della teoria delle “poche mele marce” che qualcuno spesso cita per difendere l’operato delle forze dell’ordine. «Il problema è che la polizia penitenziaria istituzionalmente per dovere fa quello – commenta Guizzardi – Il carcere fa quello perché è la sua missione istituzionale, la vendetta di Stato sul reo, la punizione, l’afflizione gratuita e lo stigma».

Dopo le rivolte del marzo 2020 la situazione nelle carceri italiane sembra essere più tranquilla e ciò è dovuto essenzialmente alla ripresa dei colloqui con i famigliari, che invece erano stato proibiti durante i lockdown.
Cionostante, i sindacati di polizia penitenziaria continuano a chiedere più dotazioni, come la richiesta avanzata la settimana scorsa dalla Fp Cgil penitenziaria alla ministra Cartabia di avere il taser, la pistola che dà scariche elettriche.
«Quello che stupisce un po’, ma non del tutto – osserva l’esponente di Papillon – è che un sindacato che passa per progressista si unisca alla richiesta tremendamente reazionaria di armare gli agenti della polizia penitenziaria di quello strumento di morte».

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