È passata una settimana esatta da quando la protesta degli sceneggiatori americani ha cominciato a paralizzare l’intero settore dello showbusiness: talk show, serie tv e molti film sono in stand-by fino a data da destinarsi. Grazie al sostegno del 97% dei suoi membri, infatti, il sindacato di categoria Writers’ Guild of America – che raccoglie oltre 10 mila autori – ha indetto uno sciopero ad oltranza contro la mancata disponibilità della Alliance of Motion Picture and Television Producers – l’associazione dei produttori – di aprire un dialogo sulla ristrutturazione dei contratti attuali.
«Pagateci o spoileriamo», le istanze dello sciopero degli sceneggiatori
Per comprendere più facilmente le motivazioni dello sciopero – che in questi mesi ha parenti anche in Italia – abbiamo intervistato Giovanni Campanella della sezione Tramiti di Acta, associazione che tutela i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici freelance. «La protesta è stata innescata da diverse ragioni – esordisce Campanella – In primis, dalle retribuzioni degli sceneggiatori, che da lavoratori autonomi ed esternalizzati, quindi precari, vengono pagati sempre meno per motivi legati all’inflazione. Poi, ci sono i ritmi lavorativi: l’espansione del settore audiovisivo negli ultimi anni ha provocato moli di lavoro sempre più alte e da svolgere anche più velocemente di prima».
Una ricerca della stessa Acta ha mostrato come gli incassi dell’industria dell’audiovisivo siano in costante aumento, almeno in Europa, ma le retribuzioni siano sempre più magre: «è una tendenza generale del mercato – afferma Campanella – le piattaforme, infatti, si rivolgono ad agenzie che assoldano professionisti esterni, ma solamente a progetto e trattenendo laute commissioni. E ai lavoratori, così, non rimangono che le briciole».
A preoccupare gli sceneggiatori Usa, tuttavia, è anche lo spettro dell’intelligenza artificiale, che contrariamente agli scenari immaginati da tempo non sta soppiantando solo mansioni manuali e fisicamente impegnativi, ma erode anche lavori culturali e cognitivi: «sempre più spesso le sceneggiature vengono affidate alle IA per venire rimaneggiate e corrette – ammonisce Campanella – e così il lavoro artistico dei professionisti viene svalutato. Senza contare, poi, che sull’automazione dei processi creativi attrae tante risorse altrimenti destinate ai lavoratori umani. E in futuro, quando l’IA si prenderà fette di lavoro più larghe, la situazione potrebbe peggiorare. Tutto questo è assurdo: le tecnologie dovvrebbero supportare chi crea i contenuti e non creare direttamente i contenuti stessi. Che poi, anche quando lo fanno, gli algoritmi basano i loro risultati su dati presi da opere scritte a pugno, non di certo da una macchina».
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Attenzione, però, a pensare che il cuore dello sciopero sia la protesta contro l’automazione dei processi creativi e dei lavori culturali. A ricordarcelo è Roy Menarini, critico cinematografico e docente all’Università di Bologna: «anche se si prende le prime pagine dei giornali, l’intelligenza artificiale non è la prima nemica degli sceneggiatori. Le cose importanti, piuttosto, sono di natura contrattuale: paghe minime, orari prolungati, tutele assenti».
Le piattaforme di streaming – principali target dello sciopero – hanno subito un vero e proprio boom di fatturato grazie all’avvento della pandemia, ma ultimamente il settore è in forte flessione: «poco importa, il rischio di impresa non deve intaccare i salari minimi. – sentenzia Menarini – A maggior ragione perchè le condizioni a cui sono sottoposti tanti sceneggiatori sono molto pesanti. E non parlo delle grandi star, ma di chi scrive in piccole writers room e si occupa precariamente di singole puntate delle serie tv».
Se questo sciopero ha colto molti e molte di sorpresa, forse, è perché ancora oggi si ha una visione molto stereotipata di chi lavora scrivendo: «Si pensa che chi scrive se ne stia tutto il giorno sul divano a pensare, ma non è così – conclude il critico cinematografico – E’ un lavoro intenso, che può occupare anche fino a 12 ore al giorno, e soprattutto è un lavoro vero. La sensibilità generale deve imparare a capire che la scrittura è la spina dorsale dei prodotti audiovisivi, è il punto di partenza. Molti si sorprendono che in America i talk show e gli spettacoli comici siano fermi, perchè non sanno che la scrittura è alla base di qualsiasi prodotto dello show business».
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Il caso italiano: doppiatori e attori contro i big dello streaming
Lo sciopero degli sceneggiatori Usa richiama due mobilitazioni quasi analoghe di recente esplosione, avvenute nel nostro paese. La prima è quella dei doppiatori italiani, categoria spesso bistrattata e accusata di snaturare il contenuto di film e serie tv: tra febbraio e marzo scorsi, infatti, è stato indetto uno sciopero dopo che il CCNL del settore doppiaggio non è stato rinnovato né modificato, nonostante le retribuzioni fossero ferme a 15 anni fa. E anche in questo caso, il casus belli non riguarda solo le paghe: l’Anad (Associazione Nazionale Attori Doppiatori) ha denunciato regolarmente il peggioramento di ritmi e qualità del lavoro a causa di tempi di produzione stravolti dalla pandemia, ma anche episodi gravissimi di lavoro a titolo gratuito. Dopo tre settimane lo sciopero è stato interrotto perché il dialogo tra parte datoriale e organizzazioni sindacali è ripreso, ma le premesse sono ambigue, così come il supporto delle istituzioni: il Ministro della Cultura Sangiuliano, infatti, si è tolto di mezzo parlando di una vicenda “non di sua competenza”.
A fare notizia, però, è stato anche il caso di Artisti 7607, la società che riunisce diversi attori italiani (tra cui Neri Marcoré, Elio Germano e Claudio Santamaria) e che lo scorso aprile ha fatto causa contro Netflix al Tribunale di Roma per compensi totalmente inadeguati rispetto ai profitti e alle visualizzazioni dei film e delle fiction che trasmette. Al centro della causa appena partita c’è l’accusa rivolta al colosso dello streaming di non condividere informazioni rispetto a quante persone guardano ogni prodotto e quanto Netflix riesce a guadagnare dai singoli progetti: un’omissione che permetterebbe di versare cifre risibili agli attori e alle attrici, che in gergo di settore vengono chiamate residual.
A regolare la materia ci sarebbe anche una normativa (stabilita dal decreto legge 177/2021) fatta per recepire Direttiva Copyright dell’Ue, la quale prevede in modo chiaro diversi obblighi: che la la remunerazione degli artisti debba essere proporzionata al valore economico dei diritti connessi in licenza; che gli artisti possano ottenere informazioni adeguate per quantificare il valore economico dei diritti; che l’Agcom vigili sul rispetto di questi doveri e – in caso di violazione – possa applicare sanzioni alle piattaforme fino al 1% del fatturato, ma a beneficio di Agcom e non degli artisti sfruttati. Una normativa che – sorprendentemente – non viene applicata con regolarità, lasciandone i principi soltanto sulla carta.
Andrea Mancuso