Più parola ai candidati politici e senza limiti di tempo. È questo che sancisce l’emendamento alle norme sulla par condicio approvato martedì sera dalla commissione di vigilanza Rai. Ma in che modo e in quale misura dare più spazio televisivo ai candidati rappresenta un pericolo, un attacco al ruolo giornalistico di mediazione, verifica e vigilanza sulla qualità delle informazioni? La chiave di lettura della questione sta in quel “più”.
Il testo della delibera prevede infatti che: “I programmi di approfondimento informativo, qualora in essi assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politico-elettorali, sono tenuti a garantire la più ampia possibilità di espressione ai diversi soggetti politici“, laddove “la più ampia possibilità” diventa una possibilità indiscriminata e illimitata di disporre dei tempi televisivi del dibattito. Quel “più” toglie campo e legittimità di ruolo a chi tradizionalmente occupa la posizione di moderatore dei dibattiti televisivi: i giornalisti.
Se pure nel passaggio appena citato il testo della delibera si mantenga piuttosto generico, la direzione della misura è più chiara negli stralci successivi:
“È indispensabile garantire, laddove il format della trasmissione preveda l’intervento di un giornalista o di un opinionista a sostegno di una tesi, uno spazio adeguato anche alla rappresentazione di altre sensibilità culturali – tutto ciò, incredibilmente – in ossequio al principio non solo del pluralismo, ma anche del contraddittorio, della completezza e dell’oggettività dell’informazione stessa, garantendo in ogni caso la verifica terza e puntuale di dati e informazioni emersi dal confronto, fermo restando il contrasto alla disinformazione”


Analisi del testo


Quello che qui vale la pena analizzare è la scelta lessicale, è l’uso accorto delle parole. Si dà per assodato, per esempio, che un giornalista e un opinionista siano separabili da una semplice congiunzione disgiuntiva, e che quindi che si tratti di un giornalista “o” di un opinionista non faccia poi grande differenza. E in fin dei conti, opinionista a quale titolo? Opinionista è considerabile anche la signora Giuseppina da Albano Laziale chiamata in causa per la sua personale esperienza sulle questioni più disparate? Oppure opinionista è anche un esperto non schierato su una questione politica ma informato su una questione divenuta di rilevanza politica?
Arriviamo alla parte centrale del testo della delibera. A fronte di tutto ciò, abbiamo fin qui supposto che giornalisti e opinionisti – chiunque questi siano – sostengano delle tesi e non invece si pongano come arbitri all’interno di dibattiti intorno a delle tesi – il ché è preoccupante anche solo da supporre. Abbiamo fin qui supposto che i giornalisti e opinionisti siano degli organi complementari nei dibattiti politici televisivi, eppure che occupino ruoli simili a quelli dei politici: abbiamo appena detto che supportano tesi e non che moderano, verificano, vigilano sulla discussione di questioni politiche di fronte a un pubblico il cui interesse è quello di essere informato in maniera equa, libera e plurale.
Lo abbiamo appena letto nella delibera della commissione bicamerale di vigilanza Rai, attenzione. Ma andiamo avanti. Le lunghe pagine trasmesse dalla commissione affermano che sia indispensabile garantire “uno spazio adeguato anche alla rappresentazione di altre sensibilità culturali”. Sensibilità “altre” è un altro modo per dire che da ora in poi in campagna elettorale sarà possibile dire tutto e il contrario di tutto, e senza la moderazione giornalistica, in nome della rappresentazione di ogni sensibilità ma non della verità.


Per non dire verità


Sì perché la parola “verità” non è citata una sola volta all’interno del testo eppure è la chiave per comprendere a cosa ci avviciniamo. A un dibattito politico moderato dalle sensibilità e non dalla verità. Dalle posizioni, dalle opinioni, dai giornalisti come opinionisti e da tutto che può essere detto al contrario di tutto. Il ruolo dei giornalisti come moderatori di un processo pubblico di comprensione della realtà viene scalzato da un modello di informazione pubblica che è letteralmente megafono, imbuto di propaganda politica. È questo che significa quel voler “garantire la più ampia possibilità di espressione ai diversi soggetti politici”, è un violento e ingiustificato via libera al chi urla più forte, al chi la spara più grossa o anche più falsa. I giornalisti (o gli opinionisti) staranno all’angolo, a farsi fact checking da soli, a vedere il proprio ruolo sbriciolarsi, la legittimità della propria professione sminuirsi nel tempo di un dibattito televisivo, nello spazio tra una pubblicità e l’altra. Ché non bastavano i social a insegnarci quanto la disintermediazione fosse pericolosa, pericolosissima. Ce ne accorgeremo presto anche sui grandi schermi.