Ribaltando il voto degli iscritti, le primarie del Partito Democratico hanno incoronato a segretaria Elly Schlein. Un risultato sorprendente fino a un certo punto, dal momento che Schlein ha sempre fatto il pieno di preferenze ad ogni consultazione a cui si è presentata, dimostrando una discreta capacità di mobilitare persone attorno alla sua figura.
Lo sconfessamento dei pronostici, la vittoria di una persona che si è re-iscritta l’altro ieri e il voto di persone che non votavano e in larga parte non voteranno Pd hanno riaperto la discussione sulle regole congressuali, in particolare quella di far scegliere un segretario di partito a chi non è iscritto a quello stesso partito. Discussione alquanto inutile se fatta a posteriori.

Elly Schlein segretaria del Pd: tre possibili strade

Donna, bisessuale, progressista. Sono diversi gli elementi simbolici che, in un partito ormai di impostazione liberale, fanno di Elly Schlein un’anomalia. Ma non sarà certo la biografia della neosegretaria a risolvere la crisi profonda che attraversa il Pd, partito che fin dalla sua fondazione ha rappresentato un equivoco tra la collocazione nominale (il centrosinistra) e le politiche praticate (di centrodestra).
Sono tre le principali prospettive che il Pd ha davanti, le possibili strade che può intraprendere con Schlein segretaria.

La prima strada è quella gattopardiana: tutto cambia affinché nulla cambi. È una strada abbastanza tipica nel Partito Democratico e ciclicamente oggetto di speranze attorno alla figura di un leader che in modo sistematico vengono deluse per la normalizzazione dell’apparato. Se c’è una cosa che il Pd ha ereditato dal Pci è il sistema di gruppi di potere ed interessi, anche e soprattutto economici, che è molto difficile mettere in riga. È più facile il contrario: per garantire la propria sopravvivenza il leader di turno deve adeguarsi a quelle regole.
Guardando al recente passato di Schlein, la strada gattopardiana è possibile. C’è infatti una sensibile discrasia tra la Schlein “rivoluzionaria” della campagna elettorale e la Schlein vicepresidente della Regione Emilia-Romagna che ha accettato senza colpo ferire politiche, ad esempio sul tema delle grandi opere, che aveva detto di voler cambiare.

La seconda strada è dettata dalle dinamiche interne al Pd stesso, che spesso rasentano la “guerra fra bande”. Qualora Schlein non accettasse la normalizzazione descritta sopra, rischierebbe di vedersi costantemente logorata dall’interno. Gli esempi si sprecano, ma quello più evidente e recente è rappresentato dai renziani rimasti nel Pd anche dopo l’uscita di Renzi.
Solo che nel partito le correnti, i “cavalli di Troia” sono così tanti che pare di stare all’ippodromo. I rischi in questo caso sono due, entrambi già visti nel recente passato: scissioni o condizionamenti a destra.

La terza e ultima strada, che al momento è quella più stretta e ripida, è che Schlein riesca a fare in Italia ciò che Corbyn fece in Gran Bretagna o almeno quanto ha fatto Sanchez in Spagna: portare il Pd nel campo della socialdemocrazia abbandonando il darwinismo liberista che ormai da tempo ha abbracciato e costruendo un asse progressista con altre forze politiche che provi a rimotivare una parte dell’oceano astensionista presente oggi in Italia.
Si tratta di un compito difficilissimo, che richiede capacità e forza di volontà, andando contro alle resistenze e alle vere e proprie opposizioni, sia politiche che mediatiche. Ma sarebbe anche la strada più auspicabile per dare, indipendentemente da come la si pensi, un po’ di normalità all’arco parlamentare italiano, ad oggi affollato dalle destre di diversa natura.

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