Anche se nelle ultime settimane qualcosa sta cambiando, anche in merito al conflitto a Gaza il giornalismo occidentale, italiano in particolare, ha dato una pessima prova. A partire dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre e al successivo assedio da parte di Israele sulla Striscia di Gaza, la narrazione mediatica di televisioni e quotidiani mainstream è apparsa completamente sbilanciata, al punto che spesso il racconto sembrava divergere profondamente dai fatti, da ciò che stava succedendo. Le cronache hanno spesso trascurato il contesto in cui il conflitto è maturato e hanno assunto i toni di una crociata proponendo la dicotomia “buoni vs cattivi” che poco ha a che fare con un’informazione di qualità.

Guerra a Gaza, i problemi di un giornalismo indebolito sulla qualità dell’informazione

Di questo tema si è discusso ieri sera in un incontro intitolato “Gaza, la guerra dell’informazione. Il ruolo del giornalismo nel raccontare le guerre. Narrazioni e fatti” e organizzato dal Coordinamento Bologna per la Palestina. A confrontarsi sono stati tre giornalisti, di cui due esperti di Medio Oriente, Anna Maria Selini e Christian Elia, insieme al presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna Silvestro Ramunno.
Selini, nel 2019, ha pubblicato il libro “Vittorio Arrigoni: ritratto di un utopista”. Elia, invece, è da poco uscito con un libro, scritto insieme alla relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati Francesca Albanese, intitolato “J’accuse – Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israle, l’apartheid in Palestina e la guerra“.

Nell’articolata riflessione sulle ragioni che portano il giornalismo a dare una pessima prova di sè nel conflitto israelo-palestinese, al netto delle difficoltà di non poter andare sul campo a causa del divieto israeliano di entrare nella Striscia, un intervento di Elia nel corso dell’incontro sintetizza alcuni dei principali nodi critici.
Alcune ragioni hanno a che fare con ciò che è diventato il mondo dell’informazione oggi. «C’è una caratteristica dell’informazione sempre più esasperata – osserva il giornalista – che è quella di raccontare solo l’infinito presente. C’è un trend dell’impoverimento delle redazioni, perché il crollo del potere economico dei media li ha resi sempre più ricattabili e deboli. C’è una pretora di freelance che per vivere deve scrivere di ciò che si vende e il contesto non lo puoi imparare su Wikipedia, tante volte c’è proprio ignoranza».

Elia però individua anche un problema più grande, quello della sudditanza psicologica verso Israele. Un atteggiamento che spesso porta all’autocensura, «che è quella che ti spinge a non usare tutto un glossario di parole che vengono ritenute scottanti – continua il giornalista – che è quella che ti impone, per la tua idea di sopravvivenza anche economica e professionale, di dover sempre dare un contropeso a quello che scrivi.
Accanto a ciò c’è il grande tema delle verifica delle fonti, che data la velocità che ha assunto il giornalismo oggi, anche a causa dei social media, spesso viene sacrificata per la forte pressione che subiscono i giornalisti nelle redazioni.

Il ruolo dei social media e del loro controllo nell’orientamento dell’opinione pubblica

I social media, però, sono al centro della questione anche per altre ragioni. Il loro utilizzo, in particolare, ha coinciso con la volontà di un pezzo di mondo che, stanco di una certa narrazione, ha deciso di riprendersi il diritto di raccontare la propria storia.
«Questa è probabilmente una parabola dell’informazione che ha trovato nel genocidio in corso a Gaza il suo compimento – sostiene Elia – Questo è il primo genocidio raccontato in diretta streaming, raccontato con una qualità professionale da giornalisti gazawi che non ha precedenti. E questi colleghi non sono diventati tali dall’oggi al domani, sono grandi producer e grandi fixer che, per una forma di razzismo del giornalismo mainstream occidentale, magari venivano solo ringraziati in fondo al pezzo».

L’indebolimento economico dei media e il crescente potere dei social media, però, hanno anche un volto oscuro.
«A maggio 2021 si abbatte su Gaza l’ennesima tempesta di bombardamenti israeliani – ricostruisce Elia – In un ufficio di Gerusalemme quello che dovrebbe essere l’alternativa a Benjamin Nethanyahu, Benny Gantz, convoca i dirigenti delle aree in Medio Oriente di Facebook, Twitter, Tik Tok e tutti i principali social media. Succede che sostanzialmente il governo israeliano, attraverso la forma diretta e indiretta, che si chiama progetto Nimbus, si è garantito l’equilibrio totale del disequilibrio. Nel giugno dello stesso anno 600 dipendenti di Facebook firmano una lettera, pubblicata dal Washington Post, che diceva che l’informazione su Israele e Palestina è manipolata, perché vengono oscurati certi commenti e ne vengono rilanciati altri».

Visto il meccanismo di sostentamento dei social, sostanzialmente attraverso le inserzioni pubblicitarie, chi ha potere economico può imprimere una direzione precisa a cosa tutte e tutti noi vediamo o non vediamo in quello che è diventato il principale quotidiano del mondo, cioè i social network.
Il giornalista, infine, mette in guardia anche su un altro aspetto che riguarda questi colossi: «Tra le decine e decine di dirigenti dei social media non c’è un arabo», dunque ecco riaffiorare il tema del razzismo e appaiono anche più comprensibili, tanto sui media ufficiali che sui social media, i toni da scontro di civiltà che sono riaffiorati negli ultimi tempi.

ASCOLTA L’INTERVENTO DI CHRISTIAN ELIA: