Un pubblico in gran parte di giovanissimi/e allievi di scuole di ballo e di bimbi/e con i genitori affollano il Teatro Comunale Nuveau per la secoda e ultima serata dello spettacolo inaugurale della stagione di Danza 2024 “Béjart Ballet Lausanne” emozionati/e come se dovessero salire loro sul palco cogliendo l’invito di Gil Roman con la sua sequenza coreografica “Alors on danse…!” creata in pandemia. C’è una grande energia in sala come in scena, l’atmosfera è gioiosa, la leggerezza non è solo nei corpi dei danzatori e danzatrici, ma è uno stato d’animo che si diffonde già prima dell’alzata di sipario nell’uditorio, forse per l’attesa di quanto avverrà, poi dalla sala passa sul palco ritornando in platea per la forza di ogni frammento della coreografia.

“Volevamo leggerezza in questi tempi difficili. Ho composto una sequenza di coreografie incentrate sulla tecnica classica, che non aveva altro scopo che il piacere di ballare”. Questa citazione del coreografo Gil Roman accoglie spettatrici e spettatori che sfogliano il libretto di sala per prepararsi alla visione. Le musiche sono di John Zorn, Citypercusion e Bob Dylan, le luci, strepitose, di Dominque Roman, i costumi, coloratissimi e vitalistici di Henry Davila. Apre la sequenza una solista, sul fondale nero degli effetti di luce bianca finchè il fondale cade e dal fondo avanza un gruppo di danzatori con costumi coloratissimi. Il gruppo viene inondato di luce dall’alto, quindi dal gruppo si passa a un lavoro a coppie che prende altri spazi. Suoni naturali prendono il posto degli strumentali. Attraverso diversi passaggi si arriva a una suggestiva coreografia per due coppie. Le danzatrici hanno linee lunghissime e morbide, regna eleganza e leggerezza. Si nota una pulizia estrema del movimento e tanta ironia, specialmente nei pezzi coreografici a seguire. I momenti d’insieme sono solari e gioiosi, taluni duetti danno l’impressione di schermaglie da corteggiamento, giochi tra innamorati. Altri momenti più classicheggianti emozionano per l’elegante piroettare della danzatrice solista sulle punte in un leggero vortice che contrasta piacevolmente con la melodia quasi orientaleggiante. In un’atmosfera di luci rosse si sentono suoni come di gocce d’acqua, anche i costumi dei e delle performers si tingono di rosso giocando con l’accostamento nero e rosso. La musica nella parte finale della prima parte dello spettacolo è il folk di Bob Dylan, un momento di totale gioia su Forever Joung che infiamma la platea per quella danza di grande grazia, eleganza e priva di sbavature, di inutili movimenti, essenziale e coinvolgente.

Nella seconda parte siamo catapultati in un mondo lontano, quello delle musiche tradizionali indiane. Le coreografie del 1968 di Maurice Béjart rivivono sul palcoscenico grazie al lavoro attento del Bejart Ballet Lausanne che, per vocazione, preserva il lavoro di Bejart pur ponendosi in uno spazio di creazione, aperto a nuovi lavori, come quello di Roman che ha animato la prima parte della serata, il quale è stato direttore della compagnia per 17 anni e ha ceduto quel ruolo, dal febbraio scorso, a Julien Favreau, per tre decenni danzatore della stessa compagnia.

Nella coreografia Bhakti III, a Bologna presentato nella sua versione rouge, narra Bejart nella presentazione della sua creazione riporatata sul libretto di sala, vediamo Shiva, che è la terza persona della Trinità indù insieme a Brahma e Vishnu. “Dio della Distruzione (che è principalmente la distruzione della personalità). Dio della danza. Sua moglie Shakti non è altro che la sua energia vitale, che emana da lui e ritorna a lui, immobile eppure eternamente in movimento”.

I costumi, disegnati da Germinal Casado, sono essenziali: una tuta rossa con fianchi e schiena scoperti per Shakti e panta rossi per il dio Shiva e per i fedeli che officiano il rituale accerchiando il dio con cui si identificano in quanto “(…)è lui stesso solo uno dei volti della realtà e senza nome”. Le luci sono nuovamente di Dominique Roman che qui lavora talora a isolare i solisti, con un segui di luce bianca, talora concentra l’attenzione sulla dimensione comunitaria, sul cerchio di fedeli nel loro susseguirsi di cambi di posizioni usando luci più calde che lasciano comunque al nero lo spazio circostante concentrando la visione solo sui danzatori. Una coreografia di grande intensità, frasi terminanti con posture nette che ricordano statue indiane, momenti di sospensione che danno punteggiatura al fluire della danza. Travolgente il momento di percussioni a ritmo incalzante con l’assolo del danzatore interprete di Shiva Alessandro Cavallo.

Nell’ultima sezione di spettacolo sono state presentate “7 Danses grecques“, composizione di Béjart che debuttò nel 1983 al City Center di New York, ripreso poi a Lausanne nel 2014. Troviamo alcune citazioni del folclore, ovvero, come Béjart preferiva definirle, delle “arti tradizionali”, citazioni e non riproposizioni delle tradizioni perchè il coreografo sentiva che le civiltà contemporanee avevano reso impossibile comprendere i processi mentali che avevano creato quelle tradizioni avendole relegate in un tempo lontano da noi, inaccessibile. Non potendo fare ricostruzioni archeologiche delle tradizioni popolari, la chiave per approcciarsi ad esse per Béjart era “diventare l’altro e non rappresentare l’altro. Abbracciare la creazione attraverso la sua linea interiore, la sua forza nascosta”. Così le danses grecques prendono in prestito solo due o tre passi dalle danze greche autentiche, il resto delle danze sono frutto di quel processo di creazione lungo la linea interiore nutrito di un rigore matematico, lo stesso che sottende la composizione delle fughe di Bach. Pur essendo ridotti al minimo i richiami al folclore e minimali anche i costumi- praticamente quelli usualmente adottati per lo studio, con le donne in body nero, calze bianche e le punte, gli uomini in pantaloni bianchi- Béjart raccoglieva dagli spettatori greci che assistevano alle rappresentazioni commenti in cui gli riconoscevano di essere riuscito a cogliere lo spirito interiore della Grecia, forse ispirato anche dalla musica entusiasmante composta appositamente per lui dal grande Mikis Theodorakis.

Le danze iniziano in una luce abbagliante, con il rumore della risacca del mare, i danzatori e le danzatrici sono tutti in piedi, ma ne è appena percepibile la sagoma in controluce e sollevano alternatamente una gamba in un ritmo evanescente, creando delle sospensioni. Al chiudersi di un sipario interno l’atmosfera cambia: dal fondale nero spicca il bianco dei pantaloni dei danzatori insieme ai loro torsi nudi e muscolosi. Dal gruppo emerge un assolo di un danzatore e segue un procedere per file e poi per coppie culminanti in pose in cui le danzatrici vengono issate in alto dai porteur mentre il solista danza al centro. Ci sono momenti di silenzio, di apre un varco nel fondale nero, ed è come se filtrasse la forte luce dell’estate greca a nutrire energeticamente la danza condotta ora da due danzatori che partono tenendosi le mani sulle spalle come nella famosa danza di Zorba, per poi lasciarsi e lavorare su una grammatica di passi classici, per poi riprendersi e creare variazioni che oscillano tra la reinvenzione del folclore e i linguaggi più codificati della danza accademica.

Nella terza danza si presenta un gruppo di danzatrici che sembrano cariatidi in fila in un colonnato che prendono vita, conquistando flessuosità senza perdere la ieraticità del volto. Il solista, in un secondo momento, danza con loro. La quarta danza è solo maschile intrisa di virilità, una coreografia di grande forza e seduttività. A questo punto è una solista con un body bianco a entrare e ingaggiare un passo a due con un solista che, per contrasto rispetto ai danzatori dei precedenti momenti, ha il costume nero. La danza successiva prevede due file di uomini e ricorda quella folcloristica greca, ma l’immagine delle file con lo stesso passo saltato si perde poi nella creazione di due cerchi e nel ritorno poi a file che divengono coppie. Incanta un nuovo passo a due mentre dietro continua il movimento corale del gruppo.

Ancora la luce come quella blu di un giorno di sole in una località mediterranea, penetra dal fondo e un assolo di puro dinamismo accende l’uditorio. La danza finale si basa su un ritmo veloce. Si riapre il fondale nero, lo schermo retrostante è illuminato di luce azzurra, si alternano gli uomini in file che eseguono il passo saltato con le mani gli uni sulle spalle degli altri. Tra momenti di immobilità e accelerazioni prosegue il gioco anche con diagonali indiavolate, momenti di grandi salti, assoli di bravura, per arrivare poi a un pieno dell’intera compagnia di ballo sul palco, tutti eseguono lo stesso passo con due file di danzatrici sul fondo di cui si intravedono i body neri a contrasto con il bianco dei pantaloni maschili. Dall’estrema accelerazione si ritorna al momento d’inizio del percorso coreografico: tace la musica, si sente la risacca del mare, dei danzatori si intravedono le sagome in controluce, tutti sono sospesi nell’esecuzione del passo con il ginocchio sollevato in una perfetta circolarità della composizione.

Scroscianti applausi, l’apertura della stagione danza ha conquistato il pubblico di Bologna che attende ora la serata Stravinskij/Rachmaninov il 9 giugno.