Il nuovo docufilm “Le ali non sono in vendita”, prodotto da FAIR, denuncia l’insostenibilità del diffuso fenomeno della fast fashion. Un documentario dove la pratica artistica e l’attivismo si incontrano e si uniscono.

Tra attivismo e pratica artistica nella fast fashion

“Le ali non sono in vendita” è un viaggio inedito nel mondo torbido della fast fashion, dove le riflessioni personali di studenti e studentesse di moda, si incrociano con il dibattito politico e ambientale, rivolto agli impatti dell’industria della fast fashion. Il documentario è scritto e diretto da Paolo Campana, con la supervisione artistica di Sara Conforti, ed è disponibile gratuitamente sulla piattaforma Streen.org, e accessibile anche attraverso il sito di Abiti Puliti: l’obiettivo è quello di diffondere il più possibile le analisi e i messaggi raccolti.

Come spiega ai nostri microfoni, Deborah Lucchetti, presidente Fair e coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, la fast fashion è un modello di business, di produzione e consumo veloce.
Da anni è adottata dalle grandi industrie del settore della moda, che producono articoli in modo molto rapido, con una turnazione estremamente veloce: ognuna di queste aziende finisce per realizzare circa 52 collezioni all’anno, e cioè con un cambio della merce a settimana. Questo spinge ad un consumo molto veloce e impulsivo. Inoltre questi capi sono venduti a prezzi davvero accessibili, che in realtà nascondono situazioni di sfruttamento e di compressione del costo del lavoro.
Infatti quello in atto è un sistema di turbo-capitalismo, applicato alla moda, e che si fonda su gambe fragili, cioè quelle dei lavoratori e lavoratrici, totalmente sfruttati e abusati.
Nel settore tessile la manodopera è soprattutto femminile, corrispondente a circa l’85% dei salariati, e che si ritrovano a lavorare in condizioni non confortevoli e molto pericolose: abusi e violenze, sessuali e psicologiche, ritmi di lavoro disumani e salari al di sotto delle condizioni di povertà.

Lo sfruttamento e l’impatto negativo e drammatico non riguarda solo l’ambito sociale, ma anche quello ambientale: i prodotti che non vengono venduti ed utilizzati, sono portati in discarica. Questo fa dell’industria della moda, una delle più inquinanti al mondo. Da tempo la Campagna Abiti Puliti, promotrice del documentario, si sta battendo per cambiare le basi stesse di questo modello di business sfrontato e arrivista.

Come ricorda Deborah Lucchetti, ai nostri microfoni, il documentario si propone come un viaggio labirintico, onirico, politico ed emotivo: sono stati coinvolti giovani studenti e studentesse, di diversi istituti superiori e accademie, che hanno realizzato una ricerca estetica, a partire dai loro vestiti. Si è creato un filo rosso performativo ed educativo, che tiene unite due linee, una più empatica e didascalica, portata avanti dalle esperienze e riflessioni dei giovani studenti, utilizzando il linguaggio dell’arte, e una linea più giornalistica e di inchiesta, dove si approfondiscono le varie problematiche e i loro aspetti, con interviste di esperti.
Il film si costruisce quindi intorno ad un labirinto, esplorando i principali luoghi della fast fashion, come negozi, magazzini e fabbriche.

Chiara Moffa

ASCOLTA L’INTERVISTA A DEBORAH LUCCHETTI: