Da un lato il daspo urbano comminato ai senza tetto, dall’altro il metodo del laboratorio di comunità che mette in contatto persone in  difficoltà con il resto della cittadinanza. Due modi di agire rispetto lo stesso problema che metteono in luce idee di comunità alternative ed opposte. L’esperienza del Centro Beltrame e della Palestrina Popolare.

Il tema del “decoro urbano“, nell’ultimo anno, è stato spesso al centro dell’attenzione. Il decreto Minniti, poi convertito in legge, sulla sicurezza urbana ha conferito alle Amministrazioni locali nuovi poteri, tra cui quello di rendere “offlimits” per un periodo di tempo a persone considerate “indecorose” alcuni luoghi strategici della città, specie quelle ad alto traffico di turisti.
In molte città i provvedimenti assunti hanno sollevato polemiche, perché spesso hanno colpito le fasce più fragili della popolazione, come i senza fissa dimora.

Anche a Bologna, lo scorso novembre, abbiamo visto l’applicazione del cosiddetto “daspo urbano”. 10 persone che dormivano sotto i portici di via Masini, nei pressi della stazione, sono state allonanate.
Un simile fatto di cronaca fa innanzitutto riflettere sul genere di società che gestisce in questo modo la questione delle persone senza fissa dimora e, più in generale, persone che vivono un qualche grave disagio negli spazi comuni delle città. Fa domandare, poi, se esistono strategie alternative e se la comunità intera abbia qualche responsabilità. La risposta è senz’altro affermativa: ne è una prova tangibile l’operato del Laboratorio di Comunità Beltrame di via Sabbatucci 2, in zona Cirenaica, struttura del Comune di Bologna gestita da Società Dolce, che si occupa quotidianamente di grave emarginazione adulta.

Annamaria Nicolini, coordinatrice del centro, spiega ai nostri microfoni quale sia la filosofia, a chi è rivolto il lavoro che portano avanti e quali sono i risultati a cui si aspira.
“Il centro d’accoglienza Beltrame è un laboratorio di comunità e questa conformazione è una modalità di approccio non solo al percorso dei singoli ma anche al contesto”. La parola contesto è infatti la chiave per capire cosa succede nel centro d’accoglienza. “Ci si rivolge ai cittadini – continua Nicolini – e all’incontro tra le risorse e le fragilità di ciascuno. Siamo servizi che tendono a lavorare nei contesti per creare contatto e permettere a chi è in difficoltà di ritrovare le risorse personali per poter affrontarle e ripartire”.

Il Centro d’Accoglienza Beltrame non è un caso isolato: diverse strutture che si occupano di grave emarginazione adulta hanno adottato il metodo del laboratorio di comunità, che si tratti di centri d’accoglienza, che sono anche laboratori, oppure strutture che svolgono specificatamente quell’attività nelle ore diurne.
Un esempio concreto delle iniziative ed attività dei laboratori di comunità e, nella fattispecie, il Centro Beltrame, riguardano lo sport con l’apertura di una palestra popolare.
“All’interno del centro abbiamo aperto degli spazi per l’attività motoria che vedono la compresenza di ragazzi, studenti, cittadini e persone che sono ospitate all’interno del centro – continua Nicolini – Tutti collaborano nella gestione di questi spazi e partecipano alle attività. Questo è un modo per rigenerare il proprio percorso e non sentirsi isolati, non solo per coloro che definiamo come senza fissa dimora, ma per chiunque”.

Un approccio, quindi, che include ed evita di etichettare in base alla propria condizione socio-economica. Qualcosa che suona all’esatto opposto dei provvedimenti ministeriali. Laddove traspare un’idea di comunità divisa tra gente ‘perbene’ e presenze indecorose per il paesaggio urbano, nei laboratori e nei centri come Beltrame si coopera alla rinascita personale di concittadini meno fortunati.

Marta Campa

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