Il secondo incontro del pomeriggio del venerdì di Internazionale è dedicato alla violenza di genere con testimonianze di donne da tutto il mondo
Violenza contro le donne tra i temi del Festival Internazionale
Anche questo incontro, come quello di stamane, è stato aperto da un ricordo delle vittime di Lampedusa, concluso dalle parole di indignazione di Riccardo Iacona: “questo silenzio lo dovremmo trasformare in un urlo verso un’Europa che non è capace di aprire le proprie porte e di fare politiche di accoglienza vera”. “Metà di questi corpi”, ha continuato il giornalista di Rai Tre, “sono corpi di donne” e si arriva così al tema dell’incontro: quella che sembra essere ormai una vera e propria guerra globale contro le donne. A parlarne quattro donne Urvashi Butalia, indiana, Mona Eltahawy, egiziana, Rebecca Solnit, statunitense, e la congolese Chouchou Namegabe.
La prima domanda è per la scrittrice statunitense Rebecca Solnit: “quali sono i numeri negli Stati Uniti e perché ha definito la violenza contro le donne un’epidemia?”. I numeri sono talmente grandi da far diventare la violenza “la norma non l’eccezione”, questa la risposta. Ma la cosa più grave è che forse nessuno ha veramente il polso delle dimensioni di questo fenomeno, perché si denunciano sempre gli atti singoli senza mai “mettere in fila le storie una dopo l’altra”, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. Una vera e propria epidemia, non solo perché ovviamente danneggia la salute delle donne, ma soprattutto per mettere in luce che “è una malattia sociale e culturale, che quindi può essere curata e che mano a mano deve diventare sempre più rara”. Anche Urvashi Butalia, fondatrice nel 1984 della prima casa editrice indiana a pubblicare testi scritti da donne, è convinta che la violenza contro le donne sia un’epidemia, ma quello che le preme sottolineare è che “è difficile da combattere perché è diffusa ma rimane nascosta, soprattutto in ragione del fatto che a commetterla sono persone vicine alle vittime”, dato che il 98% delle donne vengono abusate da compagni o familiari. Inoltre nei primi tempi della sua attività le maggiori difficoltà che riscontrava nel raccogliere le testimonianze, per esempio delle vicende seguite alla divisione fra India e Pakistan dopo l’indipendenza, erano la vergogna che queste donne provavano e soprattutto “la mancanza di un vocabolario per esprimere quanto la violenza fosse stata profonda”.
Chouchou Namegabe, che ha ricevuto in mattinata il Premio giornalistico Anna Politkovskaja, pensa invece che il termine epidemia non sia abbastanza per le atrocità che le donne da tempo vivono nel suo paese: madri violentate davanti ai figli, figli costretti ad abusare delle proprie madri, donne sul cui corpo si infierisce dopo la violenza sessuale, “chiedo al pubblico che nome dobbiamo dare a tutto ciò?”. Le prime volte che queste testimonianze sono state diffuse per radio, continua Namegabe, “la comunità è rimasta scioccata”, ma è necessario farlo per far comprendere che questo non è un problema delle donne, spesso marginalizzate dalle proprie famiglie e comunità in seguito alle violenze subite. Per questo lei e la sua associazione, l’Association des femmes des médias du Sud Kivu, hanno dato vita a corsi di giornalismo per le donne che volevano raccontare ciò che avevano subito: “lo scopo è moltiplicare le voci femminili” che raccontano queste storie.
A Mona Eltahawy il compito di raccontare la condizione femminile nelle primavere arabe. “Abbiamo iniziato una rivoluzione, ma è una rivoluzione politica ed è mia ferma convinzione che questa rivoluzione politica fallirà senza una rivoluzione culturale e sessuale”, in altre parole “dobbiamo togliere Mubarak anche dalle menti e dalle camere da letto”. Se il regime opprimeva la società, la società sta ancora opprimendo le donne: “si è passati dai militari agli islamisti, entrambi sono paternalisti, gli uni con le armi gli altri con Dio, ma nessuno di loro è interessato ai diritti delle donne”. E lei lo sa bene, dato che mentre seguiva le proteste di piazza Tahrir per la Reuters è stata arrestata e durante le 12 ore di detenzione ha subito violenza sessuale. “Io ho denunciato ciò che ho subito perché non ho nulla di cui vergognarmi, sono i miei aggressori a doversi vergognare”.
Ma la domanda delle domande è: in tutto questo dove sono gli uomini? Mona ha confessato che tanti uomini le hanno scritto dopo la sua denuncia per scusarsi e per prometterle che avrebbero vendicato il suo onore, lei ha risposto che “al suo onore non era successo proprio niente”. È questo a dover cambiare: la costruzione delle categorie sociali e dei ruoli di genere. È necessario decostruire la concezione tradizionale di mascolinità e chiedersi oggi “cosa vuol dire essere un uomo”. Butalia ha di nuovo concentrato l’attenzione sulle parole: “si dice sempre che una donna è stata violentata da un uomo e non che un uomo ha violentato una donna”, sembra che ancora una volta manchi un vocabolario, questa volta maschile, per prendersi le proprie responsabilità.
Federica Pezzoli