cronache di un venerdi pieno di musica
Si riaccendono i riflettori sul jazz per la seconda giornata di Saalfelden.
Dopo avere scaldato i motori col Dus-Ti con la tromba elettronica di Pablo Giw, non sempre ben sorretto dal drumming di Mirek Pyschny, il Festival ci offre il primo colpo d’ala con la performance della vocalist Shelley Hirsch, ospit d’eccezione del il trio svizzero di Hans Koch, clarinetto basso & tenore, Martin Schutz, violoncello e simili e Fredy Studer alla batteria. L’interplay voce-strumenti funziona alla meraviglia e la statunitense conduce la danza esplorando le mille possibilità canore della tavolozza espressiva messe a lei a disposizione. Sembra quasi trasformarsi nella “Cosa” di Carpenter, quella che incontra ed ingloba altre evite e per poi estrometterle trasfigurate nel set: Patty Smith, Billie Holiday, Jim Morrison, Katy Berberian, Lory Anderson compaiono nelle tante sfumature vocali della cantante, che intreccia col clarino basso di Koch l’incontro tra la strumentalizzazione della voce a fronte della vocalizzazione dello strumento.
Un passaggio in piazza per il concerto pomeridiano del City Concert: protagonisti i Merry Poppins, gruppo di Salisburgo che mantiene fede al suo nome producendo un modernariato musicale costruito per l’ intrigante voce di David Lagerder.
Un paio d’ore per riprendere fiato e poi ci spostiamo nel grande teatro per l’apertura del Main Stage. Dopo i saluti di prammatica, la serata si apre con l’ottetto del contralto Max Nigl, impreziosito dalle presenze di Steve Berstein alla tromba, Kenny Wolesen alla batteria e Brad Jones al basso. Nulla di sorprendente: il classico concerto di apertura, con musiche ben suonate ed atmosfera rilassante, adatta al pubblico delle grandi occasioni che partecipa al taglio del nastro. Non manca la rive gauche di Otto Lechner alla malinconica fisarmonica e Pamela Kustin che pizzica l’aria elettromagnetica del suo theremin.
Ben più indigesta invece la musica presentata dal trio di Mattew Shipp al piano nel mondo dell’ “Art of the Improviser”. La musica orbita in quel filone di free mai sopito, quella dimensione atemporale dell’espressione improvvisativa che fa del baricentro emozionale misura musicale. Il tocco del pianista è di ottima qualità, così come notevoli sono la sua capacità di mostrare lampi di lirismo in un magma generale di decostruzione tonale. Forse è il resto del trio che non riesce a mantenere il livello della tensione necessaria in un organico come questo: in particolare il batterista Whit Dickey che interpreta da routine un percorso creativo che al contrario pretende continuamente massima dedizione al plasmare generale, salvo cadere in una forma musicale troppo lineare e prevedibile.
Ma è l’arrivo del quartetto di Cuong Vu a dare il -la- all’intera giornata festivaliera. Con il trombettista Vu la batteria di Ted Poor, e i due bassi di Stomu Takeishi Luke Bergman. Il percorso musicale si presenta come un rivivere la fascinazione della ballad e a questo fine Cuong mette a disposizione l’incredibile piena sonorità del suo strumento. Ma sotto le malinconiche note di una perfetta My Funny Valentine, scandite magistralmente dal trombettista, si scatena l’onda sismica dei suoi tre bravissimi collaboratori che agganciano il tema conduttore e lo trascinano nel caos organizzato; alla fine anche Cuong deve arrendersi all’estraneazione ed abbandonare questa ricerca del tempo perduto per tuffarsi nell’inquietudine della ricerca attuale. Come Dalì mise i baffi alla Gioconda, Cuong Vu ha messo Takeishi ad Autumn Leaves. In un crescendo ben calibrato, nel finale la tromba di Vu assume toni davisiani, in un contesto dove ancora una volta si verifica quanto le Bitches Brew del grande Miles siano ancora imprescindibili per chi voglia fare musica oggi.
Chiudono la giornata i Dead Kenny G’s (Skenk sax tenore e tastiere, Brad Houser basso e baritono, Mike Dilton percussioni e vibrafono). L’impressione nell’impattto con il loro set è quella di trovarsi di fronte a qualcosa di volutamente posticcio, a partire dalle loro parrucche freakettone esibite sul palco. La musica si offre come un post punk, ovvia la citazione dei Dead Kennedys e i musicisti insistono su una grevità e una durezza ritmica fin troppo da cartolina. Poi però, quasi en passant, mostrano di ben conoscere i loro strumenti viaggiando in diversi cliché musicali, alternandoli con le cadenze brutali del dopo Sid Vicious: quasi graffittari che dipingono sui muri del teatro di Saalfelden striscie divertite di fumetti sonori.
Siamo al passaggio di boa del festival e il carniere del visitatore comincia a riempirsi di ricordi eclatanti , di interessanti new entry, di qualche delusione: questo è il festival, bellezza!