La giornalista Rai Carmen Lasorella, prima inviata di guerra italiana in Medio Oriente per il Tg2, a confronto con la redazione di www.lucidamente.com

Volto noto della Rai, Carmen Lasorella è nata nel 1955 a Matera. Dopo la laurea in giurisprudenza con una tesi sul diritto dell’informazione e la diffusione radiotelevisiva in Italia e all’estero, si è appunto dedicata al giornalismo. Inizialmente ha collaborato per Il Globo, quotidiano di politica economia e cultura, e per le agenzie Radiocor e Ansa. Nel 1979 ha iniziato la sua prima collaborazione con la Rai. Da allora la sua carriera nel massimo ente televisivo italiano è stata una escalation: dal 1987 al 1993 ha condotto il Tg2 delle 13 ed è stata fino al 1995 (anno in cui ha subito un agguato in Somalia nel corso del quale ha perso la vita il cineoperatore Marcello Palmisano) inviata di guerra del Tg2 e corrispondente dal Medio Oriente, dal Golfo Persico, dall’Africa e dall’America, realizzando numerosi servizi speciali. Nel luglio del 1996 viene nominata responsabile delle relazioni estere della Rai e assistente del Consiglio di amministrazione e del presidente, in qualità di vicedirettore. Ha poi condotto vari programmi televisivi su Rai 1 e Rai 2, in prima e seconda serata e nella fascia meridiana. Lasorella ha ricevuto molti premi ed è autrice del libro Verde ezafferano. A voce alta per la Birmania (Bompiani).

Venerdì 8 giugno la giornalista è stata a Catanzaro, presso la sala del Tricolore della Prefettura, per l’appuntamento conclusivo di Liberiamo la pace. Tre inviate di guerra si raccontano, iniziativa promossa dalla Provincia di Catanzaro e diretta da Raffaele Gaetano del Centro studi Koinè. In occasione della sua presenza nella città calabrese, abbiamo conversato a lungo con lei.

Lei è nata a Matera, ma in realtà non ha mai vissuto nella Città dei sassi. È vero?
«Io sono lucana. La mia famiglia è di Potenza e quando dovevo nascere, a causa della neve, un blocco stradale determinò la sosta obbligata di mia madre a Matera, dove partorì. In realtà ho vissuto per tanti anni a Potenza. Ora abito a Roma e viaggio spesso verso San Marino, dove lavoro».

La sua esperienza in Rai quanto l’ha segnata, in positivo e in negativo?
«La mia esperienza in Rai la giudico positiva, perché ho potuto fare il mestiere che amavo e che amo, con le difficoltà che sono ordinarie nella vita. Che poi mamma Rai sia anche una Rai matrigna, è sempre da tenere presente. È l’emittente pubblica della nostra nazione, con tutti i limiti e i problemi italiani. Si mette in conto che il lavoro di giornalista, che io continuo a considerare il più bello del mondo, ti coinvolga completamente, anche nei suoi aspetti deontologici, e ti permetta di esercitare libere scelte anche importanti, consentendoti di rivendicare sempre la tua autonomia. È chiaro che, se vai avanti con questi principi, non si tratta certo di una strada facile da percorrere».

Quando ha maturato la decisione di diventare inviata di guerra?
«Io ho fatto tantissimi reportage, anche perché ho avuto il privilegio di essere stata la prima inviata di guerra televisiva in Italia. Lo sono diventata in modo casuale, perché era agosto, c’erano gli ultimi strascichi della guerra Iran-Iraq e i colleghi erano tutti in ferie. Parliamo dell’87: io ero stata appena assunta, dunque ero l’ultima arrivata. Dopo otto anni di gavetta, con contratti a termine che praticamente non portavano mai all’assunzione, quell’agosto non c’era nessuno che partisse: lo feci io. Il lavoro è andato talmente bene che ho potuto, in seguito, continuare a occuparmi di politica internazionale. Ci vuole esperienza, conoscenza, capacità di analisi, tante altre caratteristiche, per cui non è di certo il settore più facile per un giornalista. È un punto d’arrivo non di partenza. Io ho potuto, lavorando alla redazione esteri della Rai, cominciare a fare quello che mi interessava».

Nella sua esperienza da inviata di guerra qual è stato il reportage più struggente?
«Inevitabilmente il pensiero corre al momento dell’agguato in Somalia di cui sono rimasta vittima, perché è stato uno spartiacque nella mia vita. Il mio collega Palmisano è morto e io, che ero con lui, mi sono salvata per miracolo. È stata un’esperienza durissima dal punto di vista umano. Eravamo solo a trenta centimetri di distanza, siamo stati esposti al fuoco dei killer per quaranta minuti. Lui è stato colpito, io no. Forse è stato il destino, ma comunque si è trattato di una esperienza toccante».

Qual è stato il reportage per lei più soddisfacente?
«Mi è piaciuto tantissimo realizzare un reportage in Salvador, ma anche in Eritrea, il Paese della speranza, della democrazia in Africa. Comunque mi hanno soddisfatto pure i reportage fatti in Germania, negli Stati Uniti, in America Latina e in Medio Oriente. Ho avuto la fortuna di potermi occupare delle grandi crisi internazionali del XX secolo e di poterle raccontare in spazi importanti. Questo per me è stato non solo gratificante, ma addirittura entusiasmante, perché era quello che volevo fare e ho cercato di svolgerlo con grande onestà intellettuale».

Dopo l’agguato subito in Somalia, le è mai balenata l’idea di lasciare l’attività di inviata di guerra?
«No, non l’ho mai pensato. Non sapevo però se sarei stata di nuovo in grado di farlo. Quando, per esempio, nel 1998 mi sono trovata in Ruanda, dov’ero andata per un reportage sui laghi del sangue (per raccontare ciò che era stato nel 1994 il genocidio, con un milione di morti), c’era il grande esodo di persone spinte dalla guerriglia nei territori del Congo. Per me era un momento di tensione perché non sapevo, appena avessero iniziato a sparare, quale sarebbe stata la mia reazione. Questo perché in precedenza mi ero ritrovata in una macchina che ha preso fuoco, colpita da proiettili, e sono dovuta uscire dall’auto avviluppata dalle fiamme. Ho quindi sviluppato una fobia per il fuoco. Quando, non lontano da casa mia, bruciarono delle stoppie, vedendo le fiamme, ho urlato; per me è stata una cosa istintiva, normale. Quindi non sapevo, nel momento in cui avessero di nuovo sparato, quale sarebbe stata la mia reazione. Lì ho scoperto che ce la facevo a vincere la paura».

Quando si realizzerà il sogno di Abramo della riunificazione dei popoli mediorientali?
«Purtroppo oggi si è allontanato. E questo lo dico con una tristezza infinita, perché la politica dissennata degli uni e degli altri sta provocando una radicalizzazione dei conflitti. Ad esempio, gli insediamenti nei territori della Cisgiordania sono continuati con l’avallo del governo israeliano. Netanyahu, come sappiamo, è un politico di destra che ha sempre tenuto in gran conto il consenso dei coloni, i quali hanno interesse ad allargare le comunità ebraiche e a crearne di nuove. Io ero lì quando c’è stato l’insediamento di un’ennesima comunità e so quello che accade: l’esercito viene dispiegato non per separare i contendenti, ma per proteggere chi sta violando la legge. È una situazione gravissima. In Palestina sembra sempre si sia a un passo dalla pace, tant’è che si era parlato della possibilità di un ennesimo incontro internazionale per ribadire il principio “due popoli, due Stati”. Invece siamo lontanissimi da realizzare ciò, in un’area da sempre assolutamente instabile, che amplifica le tensioni internazionali».

Quali sono le problematiche più critiche in Medio Oriente?
«Non è solo il contenzioso tra palestinesi e israeliani, ma c’è anche il problema della Siria e dell’Iran, nemici storici di Israele. Poi ci sono tensioni che si scaricano sul Libano, l’Egitto e la Turchia, che adesso ha un ruolo regionale assolutamente molto più importante di quanto non avesse avuto in passato, anche perché ritengo che si stia andando verso la costituzione di un nuovo impero ottomano. Non con connotazioni negative, bensì positive».

Quali aspetti positivi vede a proposito della Turchia?
«È la cerniera tra Oriente e Occidente. È un Paese musulmano moderato. Funge da baluardo rispetto a tutto ciò che, invece, è il mondo islamista. Stiamo parlando di mondo islamico, che è una realtà molto diversa dall’islamismo. La Turchia è un Paese con una guida autorevole, che non solo si esprime nel suo leader, Erdogan, ma anche in un governo coeso. È uno stato che ha fatto riforme in senso liberista, favorendo le imprese private. Io sono una fan della Turchia, che considero una nazione straordinaria».

Nella nostra intervista fatta di recente a Tiziana Ferrario (vedi «In tv è più facile intrattenere che informare») è emerso che i governi tendono a manipolare l’informazione. La sua esperienza in merito?
«Io non ho mai avuto questo problema. Ho sempre scritto quello che decidevo di scrivere. L’unica volta che mi è capitata una situazione del genere è stato diversi anni fa in Slovacchia. Ero in quel momento corrispondente dai Paesi dell’Est, quindi anche per la Repubblica ceca, la Slovacchia, la Bulgaria, l’Ungheria e così via. Ero in Repubblica ceca e doveva arrivare di lì a poco il nostro presidente della Repubblica. Poiché la Repubblica slovacca era retta da un personaggio equivoco, un ex pugile legato alle mafie, il fatto che, nell’imminenza di una visita del nostro presidente, io descrivessi quel Paese come retto da un signore legato alle mafie non era il massimo della diplomazia e, pertanto, mi chiesero se potevo trasmettere i miei reportage dopo la visita. In alcuni casi è una questione di opportunità».

Nessuna censura?
«Molte volte, dopo aver fatto un pezzo, qualcuno per una parola sbagliata o una notizia esagerata muore. È un mestiere delicatissimo il nostro. Ero in Somalia quando arrivò la notizia che un somalo era salito sul Colosseo e minacciava di buttarsi da lì. Parte la notizia che gli avevano sparato. Non era vero, tuttavia abbiamo dovuto disdire repentinamente un servizio dalla radio locale di Mogadiscio, in caso contrario ci sarebbe stata una ritorsione. Quella era una situazione delicata, ma, per il resto, non mi sono mai trovata nella condizione di poter o non poter dire quello che pensavo, anche se talvolta ho dovuto decidere se era giusto o meno dire qualcosa. Che ci sia a volte un’autocensura è inevitabile».

In una recente intervista lei ha affermato che la rete garantisce partecipazione, e che la tv è cambiata grazie al web. Ma ha detto pure che partecipazione è anche responsabilità, essere parte del cambiamento. Ritiene che oggi si possa realmente creare un modello alternativo di informazione?
«La televisione generalista è ormai giunta al capolinea. Ha vissuto il suo periodo d’oro. Andiamo sempre più verso la web tv. In questa direzione io, come direttore generale di San Marino Rtv, partecipo alle riunioni internazionali della Pds, l’unione delle televisioni pubbliche di tutto il mondo. La tv generalista, che è tale anche perché i containers (i contenuti) costano troppo, è vista sempre meno e da persone che continuano a vederla solo per pigrizia. Altrimenti, con l’i-pad, si può vedere il tg o un programma quando si vuole. È normale che la televisione si debba adeguare. Tutti i management delle tv del mondo sono consapevoli che devono puntare su formule più dinamiche di comunicazione, che la televisione generalista è ormai giunta al termine, che in futuro la televisione funzionerà per aree tematiche, ma sempre più in connessione con il web».

Dora Anna Rocca