In Italia la siccità è un dato ormai conclamato, soprattutto nel nord del Paese, dove molte Regioni hanno chiesto al governo lo stato di emergenza. Non è la prima volta che fenomeni siccitosi si manifestano lungo lo Stivale, ma la concatenazione di almeno due fattori – carenza di piogge e temperature precocemente e sensibilmente più alte della media stagionale – rendono la situazione molto grave.
Molta dell’informazione in materia, tuttavia, sta trasformando il problema in un tema da intrattenimento, presentando rubriche o interviste sulla possibilità di modificare le abitudini quotidiane, ad esempio la frequenza con cui facciamo la doccia, come se la siccità fosse un fenomeno contingente e risolvibile con un po’ di attenzione individuale. Approcci del genere non solo creano false illusioni, ma allontanano anche dalla comprensione di un fenomeno complesso e articolato e dalle cause che lo hanno provocato.

Il primi indiziati della siccità: i cambiamenti climatici

Analizzando i dati, la siccità che stiamo affrontando nel 2022 è stata “preparata” nel 2021. Già l’anno scorso, infatti, territori come quelli dell’Emilia-Romagna hanno registrato un deficit di precipitazioni. In generale, l’arco alpino ha registrato un -70% di precipitazioni nevose e a catena ciò si trasferisce a valle. Secondo le analisi di Arpae Emilia-Romagna, nel 2021 le precipitazioni totali annue sono state molto scarse, con una media regionale pari a 659 mm, il quarto anno più secco dal 1961 dopo il 1988, il 1983 e il 2011. Le cose non sono migliorate nemmeno nella finestra che va da ottobre a marzo, quando i valori cumulati medi delle precipitazioni sono risultati sempre inferiori alle attese climatiche, con uno scostamento di -186 mm (pari al -33%) rispetto al periodo 2001-2020. Le piogge cumulate sono stimate tra le più basse degli ultimi 20 anni, negli ultimi sessant’anni valori inferiori si sono registrati solo nel 2002, 2007 e 2012. In primavera le cose non sono andate meglio: la media delle precipitazioni allo scorso 14 giugno era di 253 millimetri contro i 359 del trentennio precedente.

La carenza di precipitazioni, però, non è l’unico fenomeno ad aver determinato la siccità. A giocare un ruolo non secondario sono state anche temperature superiori alla media che si sono manifestate precocemente. Se l’intero inverno in Emilia-Romagna è stato abbastanza mite, già a partire da maggio è arrivato un caldo estivo che non si era mai manifestato nel ventennio precedente.
In particolare, sempre secondo i dati Arpae, rispetto ai 24-25° attesi in pianura a maggio, la media delle massime è stata compresa tra 28 e 31°, con uno scostamento medio regionale sul clima tra +4 e +6° e con valore medio regionale di +5.5°.
Questi due elementi, considerato lo scostamento tendenziale dalle serie storiche, portano a puntare il dito sui cambiamenti climatici con cui anche l’Italia e l’Emilia-Romagna deve fare i conti.

L’acqua non trattenuta: inazione e incuria delle istituzioni

I cambiamenti climatici, però, non sono gli unici responsabili dell’emergenza siccità che stiamo vivendo. Ci sono criticità anche nella gestione della risorsa idrica dovuti ad una sostanziale inazione e incuria delle istituzioni.
«In Italia solo il 10% dell’acqua che arriva dalle precipitazioni riesce ad essere trattenutaaveva osservato ai nostri microfono Alessandra Furlani della Bonifica Renana – Gli invasi alpini hanno perso il 50% della propria capacità di stoccaggio a causa degli accumuli di detriti, mentre in Appennino il problema è attorno al 25%». Ripristinando la capacità di accumulo degli invasi, quindi, si potrebbero recuperare ingenti quantità d’acqua senza il bisogno di realizzare nuove infrastrutture.

Tuttavia la necessità di creare nuovi invasi viene individuata come un’azione urgente per fronteggiare un problema sempre più frequente. A tal proposito la Coldiretti ha proposto un “piano invasi” al governo nazionale, mentre con le risorse del Pnrr e di altre linee di finanziamento si corre ai ripari su diversi fronti, allo scopo di preservare meglio l’acqua che c’è.
Ai nostri microfoni l’assessora regionale all’Ambiente, Irene Priolo, ha fatto sapere che la Regione con Atersir ha elaborato 15 progetti di finanziamento, per il valore di 180 milioni di euro, per il miglioramento del sistema idrico integrato. Ma in campo ci sono anche 45 progetti, per un valore di 60 milioni di euro, per il riutilizzo delle acque reflue per irrigare i campi, in modo da non attingere da altre fonti.

Uno dei temi è quello della dispersione idrica lungo la rete. Secondo l’ultimo rapporto Istat, nel 2020 nelle città capoluogo d’Italia sono andati persi 41 metri cubi di acqua al giorno per ogni chilometro di rete idrica, più di un terzo del totale. A livello italiano, la dispersione di acqua immessa in rete sfiora il 40%, con situazioni dove questa percentuale è più disastrosa ed altre in cui, invece, si è fatto un lavoro virtuoso di limitazione delle perdite.
In larga parte questo problema è sovrapponibile alla progressiva privatizzazione della gestione idrica in Italia. Come già si evidenziava un decennio fa, in occasione del referendum sull’acqua pubblica, la necessità di massimizzare i profitti e garantire i dividendi agli azionisti da parte di multiutility quotate in borsa ha spesso rallentato gli investimenti e la manutenzione della rete.

Saltare una doccia non ci salverà dalla siccità

La breve panoramica svolta fin qui sui problemi connessi alla salvaguardia della risorsa idrica suggerisce che il tema è articolato e riguarda diversi fattori. Tuttavia nei giornali e sulle televisioni c’è poco spazio per una fotografia complessiva del fenomeno, ma si sprecano consigli e raccomandazioni sull’uso domestico della risorsa idrica.
Dal tenere chiuso il rubinetto quando ci si lava i denti a non lavare spesso la macchina, fino a non fare docce troppo che frequenti che avrebbero anche controindicazioni dermatologiche. Pratiche sicuramente virtuose, ma che rischiano di distorcere la narrazione del problema e delle sue cause.

Il consumo idrico domestico rappresenta appena il 9.6% di tutta l’acqua utilizzata per azioni umane. L’agricoltura, l’industria e anche la produzione energetica, con la necessità di raffreddare le centrali, assorbono la restante parte del fabbisogno idrico.
Farsi una doccia in meno, dunque, è una buona abitudine, ma non si configura come dirimente rispetto ad un problema che riguarda i cambiamenti climatici, i pochi investimenti, le politiche miopi della classe dirigente.
Il rischio, quindi, è che di fronte a problemi causati da un modello di sviluppo altamente insostenibile si vadano a colpevolizzare i comportamenti individuali che poco incidono sul problema stesso. Lasciando magari sperperare una risorsa preziosa come l’acqua a quei settori produttivi che vi fanno profitto.