Il dato diffuso ieri dall’Istat fa impressione. Delle 101mila persone che hanno perso il lavoro lo scorso dicembre, ben 99mila sono donne. Più in generale, nel 2020 sono state 444mila le persone ad aver perso il posto.
Tuttavia non si possono leggere i dati come conseguenza della pandemia, che resta una causa contingente, ma le cessazioni dei rapporti di lavoro ci dicono cose che riguardano un altro morbo, preesistente al Covid-19. In questa chiave l’economista Marta Fana interpreta i dati ai nostri microfoni.

Occupazione femminile: i riflettori puntano sulle riforme liberali

Che le disuguaglianze di genere attraversino anche il mondo del lavoro è cosa nota e spesso si porta all’attenzione il tema del Gender Pay Gap, la differenza di salario percepita da uomini e donne a parità di mansioni.
I dati dell’Istat, però, confermano un ulteriore elemento, che riguarda le forme contrattuali.
«Oramai sappiamo benissimo che le donne sono sovrarappresentate nei settori poveri e nei settori più precari – afferma Fana – di conseguenza sono senza protezioni. Di conseguenza le donne subiscono la propria precarietà soprattutto in un periodo di crisi, come era successo nel 2008 rispetto alle donne e rispetto ai giovani».

Il blocco dei licenziamenti deciso dal governo Conte, dunque, non ha prodotto effetti sull’occupazione femminile dal momento che un grande numero di contratti di lavoro stipulati dalle donne sono precari. «Non è un dato che fa emergere la discriminazione di genere – puntualizza Fana – La discriminazione di genere esiste sempre e va di pari passo con quelle che sono i cambiamenti e le riforme liberali del mondo del lavoro e che colpiscono le parti vulnerabili».
Eppure mediamente le donne sono più istruite, anche se si trovano a svolgere mansioni di lavoro povero o precario. Ciò dipende dalla qualità scarsa della domanda di lavoro nel nostro Paese, che a sua volta dipende da un modello industriale. «È un modello di forte deindustrializzazione e di impoverimento di quella parte di manifattura che esiste – osserva l’economista – ma incide anche la mancanza di un piano di assunzioni pubbliche, che colpisce in particolare le donne».

Un ultimo tassello riguarda il welfare e la sua penuria. Da un lato perché l’occupazione nel settore del welfare, in Italia, è molto femminilizzata, dall’altro perché la struttura patriarcale della società porta, in assenza di asili e di supporti di stato sociale, le donne ad abbandonare il posto di lavoro.

ASCOLTA L’INTERVISTA A MARTA FANA: