Non hanno altra scelta che quella di scappare, a qualsiasi costo, anche della vita. Una popolazione intera, quella eritrea, da trent’anni è in balia di una delle dittature più longeve e repressive del mondo.
Il sistema di controllo messo in piedi dal regime di Afewerki è un meccanismo restrittivo perfetto: tramite un servizio militare per donne e uomini permanente e senza paga, senza una data di congedo, impedisce a tutti i giovani del paese di studiare, di lavorare, di pensare. Nel paese non c’è libertà di religione, di parola e di stampa.
Ogni mese 5000 persone cercano di fuggire dal paese. E lo fanno affidandosi ai trafficanti senza scrupoli che gestiscono il più grande mercato di essere umani al mondo, la Libia. Sono sottoposti a torture, estorsioni e abusi di ogni genere, in molti non sopravvivono. Dall’altra parte del Mediterraneo l’Europa fa finta di non vedere e stringe, senza alcun scrupolo, accordi con i peggiori dittatori dell’area affinché contengano i flussi migratori. E la situazione nell’area è di recente ulteriormente peggiorata con lo scoppio della guerra civile nella vicina Etiopia.
Su tutto questo e sulla situazione di chi, alla fine di un viaggio al limite dell’impossibile, riesce a raggiungere il nostro paese, abbiamo fatto il punto con Abraham Tesfai del Coordinamento Eritrea Democratica.