Se si vuole la pace e si vuole fermare la guerra occorre utilizzare le parole giuste, perché la pace, quella vera, ha una sua grammatica. Troppe volte, invece, negli ultimi decenni si è utilizzata una grammatica sbagliata, che però ha avuto la preziosa funzione di svelare i retropensieri e i veri obiettivi di dominio e sopraffazione dietro a parole apparentemente pacifiste.

La grammatica della pace e le mistificazioni guerrafondaie

La semantica attorno alla pace è stata più volte violentata da espressioni quali “guerra umanitaria”, “bombe intelligenti”, “esportare la democrazia”, “missioni di pace” agite da contingenti militari.
Espressioni che non hanno concettualmente molte differenze con la neolingua del Grande Fratello in 1984, il romanzo di George Orwell. “War is peace, freedom is slavery, ignorance is stregth”, la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Più che un avvertimento, quella di Orwell è a tutti gli effetti una profezia.

In questi giorni in cui abbiamo visto precipitare la situazione con l’attacco russo in Ucraina e l’inizio di una guerra che volevamo scongiurare, nei discorsi di importanti leader o rappresentanti istituzionali non abbiamo trovato una corretta grammatica della pace, ma è continuato un utilizzo sbagliato di quei concetti.
Già nella mattinata di giovedì, il segretario del principale partito del centrosinistra italiano, Enrico Letta, ha invitato a una scelta di campo, venendo meno alla grammatica della pace. «I comodi terzismi son stati spenti dalle bombe di Putin; ora è o di qua o di là», ha detto il segretario del Pd.

Sarebbe importante capire cosa intende Letta per “qua o là”, perché al momento, attorno alla guerra in Ucraina, sullo scenario internazionale si stanno fronteggiando la Russia, con la follia del suo presidente Vladimir Putin, e la Nato.
Nel suo discorso dopo il Consiglio dei Ministri di giovedì scorso, il premier italiano Mario Draghi ha citato due volte la Nato e una volta il G7. Nessuna menzione, invece, per l’organismo che sarebbe deputato a risolvere in modo pacifico le controversie internazionali, specie se belliche: l’Onu.

Qualcuno obietta che nel Consiglio di sicurezza dell’Onu siedono Russia e Cina che hanno diritto di veto, per cui le stesse Nazioni Unite sembrano avere le mani legate in questa vicenda. Il problema, però, è precedente alla crisi attuale, perché da molto tempo l’Onu è stata svuotata della sua funzione e del suo ruolo, disattendendo le sue risoluzioni e preferendo far parlare le armi e la forza.
Quella presentata da Letta, però, è una falsa dicotomia. Si può essere contro Putin e la sua follia bellica e contemporaneamente non ritenere che l’alternativa armata della Nato sia la soluzione.
Chi dice che o stai con la Nato o stai con Putin è un guerrafondaio da evitare come la peste.
La solidarietà con le vittime non si manifesta sostenendo gli aguzzini, di qualunque fazione siano.

La guerra, vicina o lontana, fa paura a tutti. Ma se è (relativamente) lontana a qualcuno dà eccitazione, un po’ come guardare i combattimenti fra cani o le risse di strada. Io trovo qualcosa di perverso in questa eccitazione, che spesso si traduce in tifo o semplicemente sostegno a chi la guerra la vuole fare. E c’è da aver più paura di chi si eccita per la guerra che della guerra stessa.
Nei giorni che hanno preceduto l’inizio del conflitto, abbiamo visto articoli di giornali guerrafondai, che sembravano eccitati dall’ipotesi di una guerra, dileggiare i pacifisti, sostenere che fossero spariti.

Quando sono apparsi, invece, i pacifisti hanno utilizzato una giusta grammatica della pace. Anzitutto chiedendo una neutralità attiva. Poi, ad esempio a Bologna, dicendo chiaramente che le guerre le vogliono i potenti, mentre i morti sono del popolo e che non stanno né con Putin né con la Nato. A dirlo non sono solo le frange più radicali, ma sono stati i promotori della fiaccolata in piazza Maggiore, organizzata dal Portico della Pace.

«Noi chiediamo di essere non di parte, non schierati rispetto a un conflitto che si sta sviluppando in tutta la sua virulenza – ha detto ai nostri microfoni Alberto Zucchero, storico pacifista bolognese – Per prima cosa bisogna esprimere solidarietà per le vittime, per le persone più fragili, che come sempre sono gli ultimi della società, ma quando la violenza imperversa sono i primi a soccombere. Poi va condannata qualunque azione militare, da qualunque parte provenga. La via della diplomazia basata sugli opposti schieramenti militari non funziona, ce lo insegnano la Bosnia, il Kosovo, l’Afghanistan, la Siria e la Libia. Gli schemi di lettura consolatori dove c’è il buono che ha tutte le ragioni e il cattivo che ha tutti i torti non aiutano a risolvere i problemi».

Allora forse sarebbe il caso di cominciare ad utilizzare una giusta grammatica di pace e dare ascolto a chi davvero non vuole la guerra e non la vuole perché porta solo morte e distruzione, non per calcoli o interessi economici o geopolitici.