La cementificazione selvaggia di Genova comincia nel Dopoguerra, quando si immaginava una metropoli da due milioni di abitanti. Case su case e autostrade nel centro cittadino hanno però prodotto una lunga serie di disastri, di cui il crollo del Ponte Morandi è solo l’ultimo.
Lo cantavano Paolo Conte e Bruno Lauzi già nel 1972 in “Genova per noi“: “Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi prima d’andare a Genova. E ogni volta ci chiediamo se quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più“. In effetti, chiunque sia andato a Genova da “forestiero” non può non aver provato un senso di instabilità e preoccupazione per l’impianto urbanistico della città.
Arroccata in una breve lingua di terra che sale velocemente verso i monti, la Lanterna si presenta come una sovrapposizione di infrastrutture, incastonate in modo millimetrico nel centro cittadino più lungo d’Europa.
Passare sotto i piloni della Sopraelevata per raggiungere il Porto Antico della città – percorso obbligato – inquieta un po’, così come passare sull’Autostrada dei Fiori e lambire da vicino le “Lavatrici“, palazzoni con architettonici oblò che non distano molto da un traffico veloce. Senza contare le ripide e sgarrupate creuze, le mulattiere dissestate che, nonostante la celebrazione deandreiana, mettono a dura prova le caviglie e danno l’impressione a chi le percorre di poter inciampare in qualsiasi momento e “ammucchiarsi” (come dicono i locali) a valle.
Per poi arrivare alle tragedie degli ultimi anni: l’alluvione del Bisagno, la cui foce è stata ristretta e tombata, e il crollo del Ponte Morandi, costruito sopra le case popolari di Sampierdarena, crollato lo scorso 14 agosto.
L’urbanistica a Genova sembra frutto di un’autentica follia, in cui il cemento si è innestato su altro cemento in una stratificazione storica piuttosto recente che, col senno di poi, fa dire che era probabile accadesse qualche disgrazia.
In un articolo su EraSuperba, la giornalista Bruna Taravello ricostruisce, documentazione scientifica alla mano, la storia e le ragioni dello “urban sprawl“, la crescita urbana rapida e disordinata, genovese, indicando come punto di inizio il secondo Dopoguerra.
In particolare, la città uscì molto ferita dal conflitto bellico e il proprio patrimonio abitativo era pressoché distrutto a causa dei bombardamenti che Genova subì per la strategica posizione e presenza del porto. “Si calcola che almeno 11.000 case fossero state abbattute o gravemente danneggiate durante gli attacchi – scrive Tavarello – le strade erano un cumulo di macerie, edifici storici ed ospedali apparivano in gran parte compromessi e solo in città si contavano oltre 50.000 persone senza più una casa abitabile“.
Ciò spinse il governo a varare nel 1950 i “Piani di Ricostruzione” proprio per facilitare le licenze edilizie e la stesura dei vari Piani Regolatori, che a Genova fu emanato nel 1959. “Il Piano teoricamente voleva dare una sorta di continuità ai municipi che erano stati riuniti nella Grande Genova nel 1926, migliorando le vie di collegamento e razionalizzando i servizi di zona: in realtà per 15 anni fu inteso come un vero lasciapassare, in nome del progresso e della rinascita“, riporta sempre la giornalista.
Il risultato fu che, al termine degli anni ’70, “il patrimonio residenziale si calcolò aumentato del 77% rispetto al dopoguerra“.
Lo spirito di rilancio aveva preso il sopravvento. “Fu ipotizzata una metropoli che, grazie alle grandi industrie che avrebbero ripreso a produrre a pieno regime, in breve avrebbe potuto raggiungere i due milioni di abitanti, per cui si autorizzarono nuovi insediamenti senza alcuna resistenza politica di rilievo. Una sorta di ‘urban sprawl’ al sapore di pesto, ma che comunque si manifestò attraverso consumo di suolo, lottizzazione selvaggia, progettazioni dissennate e dispersione urbana“.
Il picco di abitanti registrato dal capoluogo ligure, in realtà, fu di 800mila persone, ma le costruzioni, sia civili che infrastrutturali, continuarono ad aggiungere cemento al cemento.
Bisognerà aspettare il 1976 per vedere emanato un nuovo Piano Regolatore, che pose un limite ridimensionando le pretese espansive, sia sociali che economiche, quindi anche edilizie, di Genova.
I primi effetti non tardarono ad arrivare: la prima alluvione si manifestò nel 1970, quando esondarono i torrenti Bisagno, Fereggiano e Leira e ci fu la piena dei torrenti Sturla, Polcevera, Chiaravagna e Cantarena. I morti furono 44 e la furia delle acque si portò via anche metà del ponte medievale di Sant’Agata, il cui moncherino ancora campeggia sul Bisagno.
Come in ogni alluvione, la superficie cementificata aveva ridotto di molto la capacità di assorbimento delle acque. Se si aggiungono il ridimensionamento dell’alveo e delle foci dei torrenti, l’effetto era praticamente matematico.
L’alluvione del 1970, infatti, fu solo il primo di una lunga serie, fino ad arrivare a quelli dell’ultimo decennio: nell’ottobre del 2010 con una vittima, nel novembre del 2011 con sei vittime e nell’ottobre del 2014 con una vittima. In totale, nelle frequenti alluvioni che hanno colpito Genova, sono morte 88 persone in meno di cinquant’anni.
L’impatto urbanistico è stato così pesante, però, che risolvere alla radice il problema risulta pressoché impossibile. È per questo che i genovesi, oggi, ricevono allerte ed allarmi ad ogni possibile pioggia, dalle pioggerelle primaverili ai violenti temporali.
L’acqua che viene dai monti e dal cielo, però, non è l’unica nemica dei genovesi. La strage di pochi giorni fa ce l’ha ricordato. Per la sua morfologia e per le scelte infrastrutturali compiute, Genova è attraversata da arterie, sia autostradali che tangenziali, che corrono lungo le case. Se l’ingegner Riccardo Morandi, sul finire degli anni ’70, fu considerato una sorta di genio per la costruzione del ponte avveniristico, ora crollato, non occorre una laurea in ingegneria dei trasporti per considerare almeno pericoloso che strade di grande o media portata passino sopra e a fianco alle case.
La stessa considerazione ce l’ha mossa quanto accaduto una settimana prima a Borgo Panigale, dove lo scoppio di un’autocisterna ha rischiato di propagarsi all’attiguo quartiere.
Oltre a problemi ambientali e salutistici legati alla qualità dell’aria, dunque, la realizzazione di infrastrutture che attraversano zone densamente abitate ripropone prepotentemente il tema della sicurezza.
La risposta a questi quesiti, purtroppo, porta sempre nella direzione di nuovo consumo di suolo, ma in aree rurali. Che poi verranno urbanizzate come effetto secondario (ma a volte precipuo) della realizzazione stradale stessa.
Nessuna delle tante tragedie finora registratisi (negli ultimi 5 anni sono stati ben 5 i ponti a crollare in Italia: Fossano, Camerano, Annone Brianza, Carasco e Bologna) ha mai spinto ad una riflessione che ridisegni, a medio-lungo termine, il sistema di trasporto di merci e persone. Il costruire sembra un dogma indiscutibile nel nostro Paese. Salvo poi piangerne le conseguenze.