Una definizione di “antisemitismo” formulata in modo troppo esteso e, per questo, utilizzata strumentalmente per difendere il sionismo e impedire di fatto le critiche alle politiche coloniali di Israele in Palestina. È questo lo scenario con cui si stanno misurando accademici di mezzo mondo a causa dell’adozione della definizione formulata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). E in diversi contesti l’adozione della definizione sta ostacolando la libertà di espressione, di insegnamento e di ricerca, come testimonia un report pubblicato oggi dalla British Society for Middle Eastern Studies (Brismes).

Cosa dice la definizione di antisemitismo dell’IHRA

La definizione adottata nel maggio 2016 dall’IHRA, operativa e in teoria non giuridicamente vincolante, afferma: «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo sono dirette verso individui ebrei o non ebrei e/o le loro proprietà, verso le istituzioni della comunità ebraica e le strutture religiose».
Fin qui nulla di particolarmente problematico, ma è come viene dettagliata negli esempi che iniziano a sorgere i problemi. In particolare, l’istituto afferma che è da considerarsi antisemitismo «negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio, sostenendo che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’impresa razzista».

Non solo. Sempre negli esempi dell’IHRA si mette all’indice anche «applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico» e «fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella nazista».
Casi, questi ultimi, che sembrano voler limitare in modo sostanziale le critiche verso le politiche coloniali di Israele nei confronti della popolazione palestinese, in altre parole l’antisionismo.
Per comprendere meglio, la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) che, in modo assolutamente pacifico, si oppone a quello che definisce apartheid di Israele nei confronti dei palestinesi, grazie alla definizione dell’IHRA viene considerata antisemita. Poco importa che le tesi della campagna vengano sostenute anche da organizzazioni di opposizione israeliane ed ebree.

L’impatto sulla libertà di ricerca in Università: il rapporto di Brismes

L’introduzione della definizione di antisemitismo dell’IHRA ha sollevato polemiche in molti Stati europei. Alcuni hanno rifiutato l’applicazione, altri hanno preso tempo.
Un settore in cui è piuttosto problematica l’applicazione della definizione così largamente intesa è quello accademico, perché il rischio – che si sta già verificando – è quello di limitare le libertà di espressione, ricerca e insegnamento.
Proprio oggi è stato pubblicato un rapporto di Brismes, intitolato “Academic Freedom and Freedom of Speech in UK Higher Education: The Adverse Impact of the IHRA Definition of Antisemitism“, che denuncia quanto sta accadendo nelle Università britanniche. In particolare, il rapporto presenta prove esclusive basate su casi concreti di violazioni dei diritti fondamentali del personale e degli studenti causate dall’attuazione dell’IHRA.

Nello specifico sono 40 i casi documentati dal report, che hanno coinvolto 14 Università del Regno Unito. Docenti, ricercatori o studenti accusati di antisemitismo proprio in virtù della definizione IHRA.
In tutti i 40 casi citati, però, le accuse di antisemitismo non sono state accolte. Ma non si può dire che non vi siano state conseguenze. Alcuni eventi, infatti, sono stati cancellati. Il personale e gli studenti sono stati soggetti a lunghi procedimenti disciplinari e hanno registrato diversi livelli di stress e ansia, subendo una serie di conseguenze ingiuste e dannose, incluso il danno alla reputazione. Il rischio, quindi, è l’autocensura, che porta persone a rinunciare a parlare o organizzare eventi che discutono dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei palestinesi per paura di essere soggetti a denunce, o di dover affrontare notevoli ostacoli burocratici e persino costosi azione legale.

«In Gran Bretagna la definizione è stata introdotta su pressioni del governo Johnson – racconta ai nostri microfoni Nicola Perugini, docente di Politiche Internazionali all’Università di Edimburgo e uno dei curatori del report – sotto il ricatto di tagliare i fondi qualora non venisse adottata».
Ad opporsi all’introduzione sono stati tanti intellettuali e studiosi internazionali, sia palestinesi che israeliani, «e lo stesso estensore del draft della definizione ha detto che non andrebbe applicata in ambito accademico».
La politica, però, pare sorda rispetto al parere degli esperti e sembra procedere ideologicamente in un’acritica difesa di Israele e delle sue politiche coloniali nei confronti dei palestinesi.

ASCOLTA L’INTERVISTA A NICOLA PERUGINI: