Spingendo la politica della “tolleranza zero” a livelli massimali, il presidente filippino Rodrigo Duterte ha inasprito sempre di più la sua guerra contro pusher e tossicodipendenti. Intanto, il caudillo del sud-est promette di ridisegnare il sistema di alleanze della regione. Ne parliamo con la giornalista Alessia Cerantola.

Sono oltre milleduecento le vittime accertate tra i pusher ai quali il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte ha dichiarato guerra incondizionata. Dall’inizio del suo mandato, l’ex sindaco di Davao ha esteso su scala nazionale la politica di massima repressione nei confronti di spacciatori e tossicodipendenti, dichiarando di voler seguire l’esempio di ciò che Hitler fece in Europa con gli ebrei.
Questa è solo una delle tante uscite provocatorie che hanno gettato quello che i media hanno definito il “caudillo” filippino alla luce delle cronache internazionali. Lo sceriffo di Mindanao ha infatti sparato a zero quasi su tutti, da Papa Francesco a Barack Obama passando per le Nazioni Unite, il cui segretario generale Ban Ki Moon ha mosso accuse di violazioni di diritti umani nei confronti delle Filippine.

Nel capire come una figura come Duterte abbia realizzato la sua ascesa politica bisogna volgere lo sguardo alla città meridionale di Davao, che lo elesse sindaco nel 1988. La giornalista Alessia Cerantola ci illustra il contesto in cui la carriera di Duterte ha avuto inizio: “Davao è stata la città laboratorio del suo progetto politico. Siamo negli anni 80, in una città che è in preda a bande criminali ed estremisti islamici. All’epoca il paese era sotto la guida di Ferdinand Marcos, destituito nel 1986. Poi con Duterte Davao diventa una città in cui si cominciano a sperimentare una serie di iniziative per mettere a freno quegli stessi nemici che ora combatte a livello nazionale nella sua guerra alla droga e all’Islam”.

Questa guerra sta assumendo caratteri sempre più macabri. Il numero di morti aumenta ogni notte e lì dove non opera la polizia esistono squadroni di vigilantes che ammazzano a cottimo. In un paese in cui l’indice di povertà è al 26% e in cui un cittadino su quattro è sotto la soglia, molti filippini manifestano sostegno a queste operazioni di “pulizia”. Nel far fronte ad una possibile crisi umanitaria esistono, però, organi che esprimoni dissenso verso l’autoritarismo del governo.
 “C’è una parte della popolazione che contrasta queste iniziative, e esiste anche una parte di media indipendenti che agiscono in maniera accesa in questa azione di contrasto come The Reppler, che si concentra soprattutto su produzioni video che riguardano le storie di persone che si vedono i parenti uccisi da questi squadroni della morte pagati dal governo” – ci spiega Alessia Cerantola.

Esiste, però, anche un’opposizione politica che si preoccupa di contrastare la deriva autoritaria di Duterte. Il caso principale riguarda l’avvocato e attivista e politica Leila De Lima, figura centrale nel Dipartimento di giustizia dell’ultima amministrazione Aquino:
Leila De Lima viene rimossa perché faceva parte della commissione di giustizia diritti umani che indagava sulle esecuzioni arbitrarie. E questo – secondo Alessia Cerantola – conferma come Duterte in questo momento abbia un potere tale da zittire chiunque in politica e nell’opinione pubblica cerchi di contrastare la sua posizione”.

Il passaggio di poteri al Malacañang dall’ultimo degli Aquino a Duterte ha indubbiamente determinato un avvicinamento all’asse russo-cinese di un paese che da decenni era allineato con gli Stati Uniti; i recenti risultati elettorali americani rischiano, però, di presentare dei risvolti interessanti sugli equilibri commerciali del Mar Cinese Meridionale, in cui Duterte può strizzare l’occhio tanto alla Cina quanto al protezionismo promesso da Trump:
“Lo spostamento delle Filippine non è singolo, ma legato a una serie di altri paesi vicini in un’area in cui la Cina fa da protagonista. Duterte, dopo la recente visita di Xi Jinping, ha dimostrato il riavvicinamento all’area cino-russa. A questo punto però con l’elezione di Trump ci si domanda se cambieranno i giochi. Si apre una serie di interrogativi perché siamo in un’area in cui si contrastano gli interessi dei paesi del Sud Est e degli Stati Uniti. Si tratterà di prendere una posizione e decidere se le Filippine debbano rimanere vicine a Pechino o a Washington”.

Intanto, dall’altra parte dell’Asia, la guerra all’Isis pare volgere al termine. Il rischio che i miliziani superstiti vadano a rinforzare le file di Abu Sayyaf e di altre organizzazioni filo-islamiste nel Sud-Est asiatico potrebbe determinare un’ulteriore impennata del numero di vittime fatte da Duterte in una lotta al fondamentalismo oltre che al traffico di droga.  Secondo Alessia Cerantola l’eventualità non è da escludere:
“L’area è molto animata, specie quella del sud e di Mindanao. Storicamente è sempre stata una zona separata e infelice, il che la rende un buon vivaio, un ambiente che può generare gruppi estremisti. Che questo succeda con la presenza e l’imposizione forte di Duterte è da vedere, ma di sicuro si tratta di una zona che ancora tiene testa in maniera forte al governo centrale di Manila”.

Cristiano Capuano