Con il 61,9% dei voti, ma un 48,8% di affluenza alle urne, la più bassa di sempre, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi ha vinto le elezioni presidenziali in Iran, imponendosi sui pochi rivali che erano riusciti a superare la “selezione” dei Guardiani.
Il prossimo agosto, dunque, finirà l’era riformista di Hassan Rohani, al potere dal 2013, che è riuscito a mantenere ben poco dei suoi propositi, vivendo una stagione in cui l’Iran si è trovata in ginocchio per le sanzioni americane, ha dovuto fronteggiare come poteva la pandemia e ha suscitato molto odio anti-iraniano nei Paesi dell’area, specie in Iraq.

Raisi, una vittoria annunciata che complica i colloqui sul nucleare

«Innanzitutto c’è stato come al solito un intervento del Consiglio dei Guardiani che ha fatto sì che si arrivasse al voto senza candidati scomodi – osserva ai nostri microfoni Giuseppe Acconcia, giornalista e ricercatore di questioni mediorientali all’Università di Padova – C’è stata una campagna di critica nei confronti dei riformisti moderati senza precedenti. Poi molti dei candidati alle presidenziali si sono ritirati alla fine del voto, quindi non c’era un candidato forte che potesse fronteggiare la leadership di Raisi, che nel 2017 si era già presentato alle elezioni ed era arrivato secondo dietro l’attuale presidente Rohani».

Quest’ultimo, in particolare, negli otto anni in cui è stato al potere ha agito in continuità rispetto al passato e non ha portato ciò che tutti, anche la parte conservatrice, si aspettavano: arrivare ad una distensione con la comunità internazionale. Non sono dunque arrivate né la fine delle sanzioni, né una politica estera iraniana più equilibrata, ma al contrario il sentimento anti-iraniano si è diffuso in molti Paesi, in particolare contro la presenza iraniana all’esterno dei propri confini.
Rohani ha fatto poco o niente anche sulla questione dei diritti umani, perché alcuni dissidenti rimangono in carcere, tra cui l’anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, che è recentemente stata condannata ad un anno di carcere.

Raisi si è trovato quindi la strada spianata e la preoccupazione è che possa riportare il Paese indietro ai tempi di Mahmud Ahmadinejad, che è della sua stessa corrente politica.
Uno dei nodi focali è l’accordo sul nucleare, che nel 2018 è stato stralciato unilateralmente dall’allora presidente statunitense Donald Trump. È difficile che Rohani, nei pochi mesi che lo separano dall’addio al potere, riesca a giungere ad un accordo che ponga fine alle sanzioni, quindi all’embargo.
«Sul nucleare iraniano si apre una nuova pagina – osserva Acconcia – È evidente che adesso i colloqui sono in salita, perché avere un presidente ultraconservatore significherà fare nuovi colloqui per arrivare a un’intesa».

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