È proprio nelle prossime ore che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è atteso alla Knesset – il parlamento monocamerale israeliano – per annunciare pubblicamente la decisione in merito alla contestatissima riforma della giustizia promossa dal suo governo. Tra scenari di approvazione, sospensione temporanea, revisione o cancellazione definitiva, si possono solo fare congetture in attesa del discorso del premier – anche se i mezzi di informazione israeliani parlano di un probabile congelamento.

Fino a poche settimane fa l’esecutivo era certo di approvare la legge prima della Pasqua Ebraica – e per sopprimere dissidi interni era addirittura giunto al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, dettosi favorevole al suo congelamento – ma l’esplodere di manifestazioni popolari nelle piazze di oltre 180 città del paese – che hanno visto partecipare quasi un milione di persone – ha messo un freno alle sue convinzioni.

Diverse categorie hanno annunciato lo sciopero permamente e totale, tra cui gli operatori aereportuali – con disagi pesanti per i voli internazionali – e le università. A questi, dovrebbero aggiungersi anche i lavoratori del settore sanitario. La richiesta è che la riforma venga accantonata definitivamente, senza compromessi – e il ministro Gallant venga rimesso al suo posto.

I passaggi contestati della riforma della giustizia

I particolari contestati della riforma mettono a rischio la separazione dei poteri e la prevenzione dei fenomeni di corruzione all’interno della classe politica: Netanyahu, tra i promotori più accesi del disegno di legge, è infatti a processo per corruzione, ed è chiaro quanto ci sia il rischio (se non la certezza) di un conflitto di interessi. Ne abbiamo parlato con Michele Giorgio, giornalista e autore per Il Manifesto, esperto di questioni israeliane e palestinesi, in diretta da Gerusalemme, presente ad un nuova grande manifestazione davanti alla Knesset.

«Il progetto di riforma della giustizia avviato da Netanyahu prende di mira la Corte Suprema, cercando di depotenziarla e sottometterla al controllo del potere esecutivo, e tenta di ingrandire l’influenza del potere religioso, ossia le comunità rabbiniche. Netanyahu, però, sta anche cercando di salvare sè stesso: un articolo già approvato della riforma toglie al parlamento la facoltà di dichiarare incapace di governare un primo ministro – a meno di numeri eccezionali» – afferma Giorgio.

Nelle specifico, il testo è accusato di tre criticità principali: come già detto, di indebolire l’indipendenza della Corte, consentendo alla Knesset di ribaltare le sue decisioni con una maggioranza semplice di 61 voti sui 121 seggi (uno scenario agevole per la stessa maggioranza di Netanyahu, forte di 64 seggi in parlamento); di privare la Corte del potere di rivedere la legalità della cosiddette leggi fondamentali, i provvedimenti che rappresentano il corpo legislativo fondamentale del paese; infine, di intervenire sulle modalità di selezione dei giudici che siedono in tribunale. Se attualmente i magistrati vengono scelti da un panel indipendente, la riforma attribuirebbe invece un potere maggiore al governo, incrinando i valori di parità e trasparenza, portando le nomine politiche da nove a undici.

Oppositori in parlamento, sindacati e manifestanti sostengono che tra i risvolti di questa legge ci potrebbero essere l’approvazione di leggi ad personam – per scagionare Netanyahu nei processi che lo coinvolgono – o il favorimento di ulteriori strette contro la popolazione palestinese.

Quale futuro per la maggioranza e l’esecutivo?

Ad essere in discussione, tuttavia, non è solamente quel che resta della democrazia in Israele, ma anche la stabilità dell’esecutivo: «Netanyahu è stretto tra due fuochi: da un lato, di fronte al sollevamento popolare, è quasi costretto a fare un passo indietro; dall’altro, all’interno della maggioranza stessa ci sono voci disposte a far cadere il governo in caso di frenata, come quella dell’estrema destra di Potenza ebraica. Probabilmente, il premier darà un colpo alla botte e uno al cerchio. Congelerà la riforma e la riproporrà più avanti in forma “alleggerita”», continua il giornalista.

Ma non ci sono solo voci contrarie ad una sospensione, all’interno dell’esecutivo, anzi. Diversi esponenti della maggioranza stanno cercando di convincere Netanyahu a trovare un compromesso – tra cui il ministro della Cultura Niki Zohar, quello dell’Economia Nir Barkat e quello all’Uguaglianza sociale Amichai Chikli – assieme al Presidente Isaac Herzog. Tutti sostengono la necessità della riforma, ma non a costo di causare la rottura totale del paese. Piuttosto – sostengono – si farà in futuro.

Fuori dalla maggioranza, poi, la contrarietà è totale, come gridano le parole di Yair Lapid, leader dell’opposizione: «Il premier può licenziare il ministro, ma non può licenziare la realtà del popolo di Israele che sta resistendo alla follia del governo».

L’alleanza atlantica spinge l’esecutivo verso un compromesso

Fuori dai confini nazionali israeliani, la preoccupazione è lampante. Joe Biden avrebbe chiamato personalmente Netanyahu per esortarlo a trovare un compromesso, mentre John Kirby – portavoce del consiglio di sicurezza nazionale USA – ha dichiarato che i valori democratici devono rimanere l’asse portante dell’alleanza USA-Israele. Non ultimo, il console israeliano a New York, Asaf Zamir, si è dimesso in quanto non più disposto a rappresentare diplomaticamente il governo.

«Stati Uniti a parte – il principale alleato internazionale di Israele – lo stesso disappunto è stato espresso dalla Germania, dove Netanyahu si è recato nei giorni scorsi, che tramite i suoi leader ha ricordato l’importanza dei valori democratici e di separazione dei poteri. Quando il premier israeliano è venuto in Italia, invece, è stato accolto a braccia aperte dal governo Meloni, che non ha detto nulla sulla questione è si è limitato a rinnovare l’alleanza tra i due paesi», conclude Michele Giorgio.

Civili, corpi intermedi e alleati occidentali rimangono quindi col fiato sospeso nell’attesa di sapere la decisione presa dall’esecutivo, che verrà comunicata da Netanyahu nelle prossime ore e avrà – prima che ripercussioni sulle possibilità di sopravvivenza del governo – un forte impatto sulle velleità democratiche di Israele.

ASCOLTA L’INTERVISTA A MICHELE GIORGIO:

Andrea Mancuso