In scena fino al 2 aprile all’Arena del Sole Mr Puntila e il suo servo Matti di Bertolt Brecht nell’allestimento del teatro dell’Elfo con la traduzione e regia di Ferdinando Bruni, in scena come Puntila. Una “commedia brillante” del drammaturgo tedesco, scritta in esilio in Finlandia nel 1940.

Mentre Brecht scriveva il Puntila, tra il settembre e l’ottobre del 1940, in Inghilterra piovevano le bombe del terzo Reich. Brecht seguiva dalla radio e dai giornali finlandesi lo sviluppo della battaglia d’Inghilterra e scriveva la sua commedia brillante tratta da un lavoro della scrittrice finlandese Hella Wuoljoki che aveva invitato e ospitato Brecht nella sua tenuta in Finlandia.

Brecht “lontano dai centri in cui si svolgono gli avvenimenti da cui dipende tutto”, porta avanti il suo lavoro letterario cercando di lavorare sugli spunti epici del testo dell’amica finlandese, dando forza agli elementi farseschi delle otto scene iniziali (diventeranno poi 12), giocando tutto sul contrasto tra “padrone” e “servo” per acuire la comicità del lavoro. L’intento del drammaturgo era quello di farne una commedia nazionale finlandese (Hella la tradusse dal tedesco), che potesse raccontare al popolo tratti riconoscibili della vita finlandese.

Il signor Puntila non venne messa in scena fino al 1948, a guerra finita, a Zurigo e nel ’49 ad Amburgo dove fu apprezzata dalla stampa come commedia popolare che smorzava gli eccessi rivoluzionari dei precedenti lavori brechtini. Nello stesso anno Brecht la portò in scena coi Berliner Ensamble con modifiche al testo e momenti cantati tra una scena e l’altra (elemento ripreso dalla messa in scena dell’Elfo), ottenendo lodi come esempio di rappresentazione epica in forma di commedia.

In Italia la mise in scena per la prima volta lo Stabile di Torino nel 1970 con Tino Buazzelli e Corrado Pani per la regia di Aldo Trionfo, scene e costumi di Luzzati con l’inserto delle musiche scritte da Dessau per la versione operistica che Brecht abbozzò nel 1957.

Se quella versione fu definita dalla stampa di allora “una specie di avanspettacolo d’arte, popolaresco e sofisticato insieme” (La Notte, 10 febbraio 1971) e venne lodata la capacità della compagnia di mettere in scena Brecht comicamente senza tuttavia farne perdere la carica di critica sociale, potrei definire la versione di Bruni e Frongia dell’Elfo approdata a Bologna, comicamente esuberante, hollywoodiana, corale, forse a tratti eccessivamente coinvolgente, capace di lasciare solo pochi spazi, tutti da cogliere tra le righe, alla presa in carico da parte del pubblico del compito di rovesciare l’immobilità sociale del rapporto tra sfruttatori e sfruttati.

Il tratto più evidente della messa in scena è la volontà del regista di usare un linguaggio contemporaneo, proponendo una libera traduzione del testo brechtiano in cui si arriva ad esempio all’uso di offese tipicamente quotidiane come “stronzo” o la tenuta di Puntila diventa “puntiland” come fosse uno stato un cui si batte moneta, si veda l’enorme banconota di stoffa che funge da sipario in cui troneggia la scritta “The Puntiland States of Puntila”. 

Chiari i riferimenti registici al cinema muto, in particolare al famoso film di Chapin “Luci della città” che Brecht stesso aveva in mente nel suo rimaneggiamento del testo di Hella. Eccezionale Elena Russo Arman come bionda svampita e sofisticata che adotta movenze hollywoodiane, ma accento milanese e delicati accenni a gesti, espressioni facciali e inflessioni della mitica Mariangela Melato.

Altro elemento d’impatto sono i cori delle quattri fidanzate di puntila che divertono fino alle lacrime, grazie anche alla fisicità e alla mimica curata nel dettaglio delle quattro straordinarie attrici, usando le melodie di Dessau in modo poco lirico e piuttosto da canto sull’aia.

Convince pienamente l’interpretazione asciutta, incisiva, graffiante che Luciano Scarpa fa del servo Matti, ovvero lo chauffeur del capitalista Puntila, spinto dal padrone, nei suoi momenti di ubbriachezza, a sposare la bella figlia Eva. Il momento più esilarante dello spettacolo è proprio nella scena dell’ “aringa” in cui Matti cerca di educare Eva a diventare una perfetta moglie di un povero, dimostrandole l’impossibilità che una donna ricca, andata a scuola dalle suore, possa adattarsi, se pure per amore di un vero uomo, alla vita dei proletari.

La forza critica del testo di Brecht nei confronti del capitalismo, del consumismo, dello sfruttmento dei padroni, emerge soprattutto dall’allestimento scenografico, che tuttavia va interpretato e non è di immediata lettura. Quarti di mucca sono dipinti alle pareti con i segni dei tagli di carne, come quelli che si trovano in certe macellerie; carcasse di animali sono posti sulla tavola imbandita per il fidanzamento, poi andato a rotoli, della bella Eva con l’attachè dalla segatura nel cervello; corna di renna finlandese vengono usati qui e là come attaccapanni. Tutti questi elementi scenici mirano rappresentare da un lato lo sfruttamento che il capitalismo fa degli animali, dell’ambiente e dei lavoratori ridotti a carne da macello; da un altro lato a indicare l’agrario Puntila come una bestia preistorica di cui dovrebbero oggi esistere solo le ossa, mentre addosso ha ancora molta carne (se pure solo nelle parole del testo perchè Bruni non ha adottato un costume farsescamente da grassone) e vive in salute arricchendosi con il lavoro degli operai: vere bestie da soma. In ultimo le carcasse d’animali potrebbero essere lette anche come una critica metabrechtiana al sistema culturale contemporaneo che è andato nella direzione diametralmente opposta a quella auspicata da B.B. consegnandoci ogni giorno spettacoli profondamente “gastronomici” in cui è totalmente assente l’intento di usare la rappresentazione realistica del vero con intento pedagogico, per arrivare a una presa di coscienza e ad un’ azione sulla realtà per modificarla.

Nel complesso uno spettacolo riuscito, travolgente, anche se con momenti di calo ritmico e di conseguente attenzione del pubblico, verso la fine dello spettacolo. Un Brecht in commedia dalle cui parole risuona ancora oggi l’appello al pubblico a considerare “un uomo un uomo” e non un agnello o, come in questo caso, una mucca da mungere o sfruttare fino all’osso.