Nella danza della vita non è previsto lieto fine, Emma Dante ce lo ricorda con “Il tango delle capinere”, spettacolo in scena fino al 5 marzo all’Arena del Sole. Se sei donna, i tuoi sogni di fare l’astronauta vengono manipolati da un bravo falegname che a suon di carillon guida le tue scelte come una marionetta verso il matrimonio e da lì qualche gioia, delusioni, litigi, in ciabatte e vestaglia ci si ritrova al capolinea. “E se domani” sembrava una romantica aspettativa di una vita insieme narrata in una canzone di Mina, quando quel domani di solitudine arriva, la donna della coppia sente di aver realmente perduto il mondo intero e non solo il compagno di cammino e si lascia andare in un tragico finale.

Dopo Scarpette rotte andato in scena qualche mese fa, sempre sul palco dell’Arena, torna a Bologna una regia di Emma Dante con “Il tango delle capinere”. La metodologia compositiva dello spettacolo è analoga, la regista lavora su improvvisazioni insieme agli attori e attrici utilizzando musiche per attivare l’immaginazione degli e delle improvvisatrici. Si lavora per strati di costumi a partire da un grado zero che può essere un costume da bagno o un body e da lì vestizioni e svestizioni in scena a raccontare momenti di vita, passaggi di epoche, situazioni psicologiche. In scena inizialmente solo due casse da cui usciranno, durante la narrazione, abiti e oggetti di scena. Appesi al soffitto delle luci da balera che un’anziana signora, piegata dagli anni e dalla vita, accende a rievocare un passato di ricordi e affetti.

Insieme alle luci si attiva anche l’evocazione a fondo palco di un’altra cassa e di un’altro personaggio, questa volta maschile. Un vecchio altrettanto polveroso e malconcio dell’anziana in primo piano. I due sono una coppia che si ritrova nell’antica consuetudine di un ballo della mattonella sulle note della già citata “E se domani”. Gesti consueti e consolidati, scambio di attenzioni, e poi lui s’addormenta sulle spalle di lei ballando, come i ballerini di una maratona di ballo. Poi un sussulto nel sonno fa come risvegliare una passione sopita, un’avvinghiamento di corpi che si riconoscono per un’istante prima di ricadere nel letargo senile. Tra risate e sentimenti di tenero affetto per la coppia, il pubblico segue la narrazione, quasi interamente gestuale senza una parola per buona parte dello spettacolo, assistendo a un progressivo ringiovanimento di marito e moglie, tutto reso attraverso cambi d’abito e di postura. Ci ritroviamo in una balera anni ’60 sulle note di una struggente “Lontano lontano” di Tenco. E sempre più giovani e agili i due si scatenano in un tuist, condividono momenti passionali e gioiosi, altri molto dolorosi e di tensione come il travaglio e il parto. Dall’abito da sera lei rimane in sottoveste con un bimbo in braccio tra pianti e pappe e quando i due provano a conquistarsi un momento di intimità, dal seno di lei emerge una lunga lista della spesa da fare. Gesti teneri, gesti di quotidiana condivisione del vivere e un natale, un regalo prezioso: un paio di scarpe rosse da ballo costate una fortuna da indossare a capodanno per buttarsi in follie danzerecce.

E tutto lo spettacolo ruota attorno al ricordo di quel capodanno e della gara di ballo affrontata dalla coppia con il numero 74 con quelle scintillanti scarpette rosse ai piedi di lei. Quella sera ha alti e bassi: è il ricordo più bello, ma forse rappresennta anche la prima delusione di lei quando lui si addormenta ubbriaco e lei resta in camicia da notte rimpiangendo, forse, la mancata passione dopo la serata di balli.

In un avanti e indietro del tempo scopriamo che i due si erano conosciuti su una spiaggia vicino casa, i sogni di lei studentessa delle superiori di fare l’astronauta e la sua trasgressione degli ordini del padre di non fare tardi rimanendo invece con il suo giovane pretendente falegname che le regala un carillon alla cui musica risponde muovendosi come una bambola, o una marionetta comandata da fili invisibili, avviandosi, inserorabilmente, verso la fantasia di essere portata sulla luna dall’amore di lui. Ed è subito anello, abito bianco e miraggio di una felicità casalinga.

Il grande amore che fa voltare le spalle a tutto il mondo, di ballo in ballo, giorno dopo giorno, li porta ad affrontare la vita insieme fino alla solitudine di lei, una volta mancato il marito. In questo momento le risate fatte, la leggerezza della storia e della danza si mutano in una cocente stretta allo stomaco che mi ha personalmente presa come spettatrice. Una manciata di pillole e l’autoriduzione dentro la cassa, una sorta di volontaria uscita di scena per l’insignificanza dell’esistenza, alla perdita del compagno di vita. Un gesto così forte quello dell’attrice, che ricorda certi rituali che prevedono il sacrificio della vedova, non più donna, non più soggetto utile alla società. E’ chiaro che non ci può essere favola nella vita narrata da Emma Dante, le scarpette rosse, l’abito bianco conducono a prese di coscienza dolorose che vivere, dal punto di vista di una donna, somiglia molto a una presa in giro perchè conduce a incredibili vette di gioia, estasi, felicità, ma fa precipitare l’istante dopo nel dolore che fa implorare la morte tanto nell’approssimarsi del parto, che al momento della perdita dell’oggetto d’amore.

Come in altri spettacoli della regista, la prospettiva da cui si narra è decisamente quella di una donna, questo stupisce solo perchè per secoli le storie sono state narrate dall’angolo di visuale di uomini, autori, poeti, registi. In questa storia, sebbene si parli di una coppia di innamorati, il punto d’osservazione della vicenda è chiaramente orientato dalla visione della donna su quello che avviene: sono le sue reazioni agli eventi che ci arrivano forti nella pancia, forti come i calci del bambino o la bambina che portava in grembo, forti come le contrazioni del parto. Il senso di angoscia che invade nel finale toglie il fiato e congela un grido nel cuore nell’assolvere il compito di ringraziare gli e le artiste sul palco con un applauso. Conclusi i rituali teatrali, nell’uscire dalla sala l’angoscia risale in gola e viene voglia di prorompere in un grido di ribellione a quel destino di donne. Emma Dante sembra volerci mettere in guardia rispetto alle lusinghe dei carillon, degli abiti bianchi, ci mostra cosa comporta la rinunciare ai sogni di ragazza, cosa c’è dietro l’abbandonarsi alle note di quelle seducenti canzoni d’amore nelle quali ci ha immerse per tutto il tempo anche come spettatrici. La ricerca della fiaba porta a danzare spensieratamente per una parte della storia, il prezzo di indossare le scarpette rosse è davvero alto e, forse, non è pari tra uomo e donna. Da qui potrebbe seguire dibattito, non dentro il teatro, ma nella quotidianità di ciascuno e ciascuna di noi.

Buona visione, repliche sabato 4 ore 19 e domenica 5 marzo ore 16.