Overload è uno spettacolo geniale nella sua costruzione, capace di rompere le consuetudini della narrazione teatrale lineare forse per riaffermarne la profonda necessità, non tanto della linearità, già fatta a pezzi dalle avanguardie di tutto il ‘900, quanto della narratività, preziosa come l’acqua per un pesce.
Il tema del gioco scenico è il calo di attenzione che ha colpito uomini e donne nel nostro tempo. Secondo le ultime ricerche citate nel testo, non saremmo più capaci di tenere l’attenzione per più di 9 secondi, siamo tutti eccessivamente bombardati da masse di informazioni che rendono estemamente difficile riuscirsi a concentrare su un unica azione, dedicare attenzione a lungo ad un discorso, ad un testo o a qualunque altra cosa.
L’indivuduo contemporaneo è distratto da mille sollecitazioni visive, sonore, inviti a compiere altre azioni mentre già ne sta compiendo una. Ecco allora l’idea del Collettivo Sotterraneo di realizzare uno spettacolo in cui uno scrittore americano scomparso nel 2008, David Foster Wallace, tenta di fare un discorso in pubblico, ma viene continuamente sovrastato nel suo eloquio dall’attivazione di contenuti esterni, in un gioco perverso in cui ad un segnale proposto dagli attori, spetta al pubblico decidere se ascoltare l’autore o scoprire a cosa conducono questi link esterni, autodistraendosi volontariamente dal filo del discorso principale.
Come davanti agli schermi dei nostri pc, siamo chiamati a decidere se dedicare la nostra attenzione per più di 9 secondi ad un discorso articolato, oppure se farci distrarre da altre sollecitazioni che incrociano il nostro prcorso, la nostra navigazione sul web.
Inutile dire che i contenuti extra sono stati tutti attivati dalla platea. Molto divertiti gli spettatori si sono alzati in piedi a turno rispondendo alla sollecitazione offerta. Sul palco sono così apparsi pescatori, inviati in luoghi di disastri, guerrieri romani, tenniste, manifestanti violenti, sono accadute stragi davanti ai nostri occhi, tutto mentre il defunto Wallace, microfono alla mano, tentava di raccontare una sua giornata di settembre del 2008.
Con la stessa capacità di attenzione dei pesci, 9 secondi, lo spettatore medio televisivo, o il fruitore di informazione on line, nella sua giornata, spesso si trova nella medesima situazione di caos informativo offerto dai giovani di Sottrraneo.
Foster Wallace tenta di spiegarlo: ogni giorno migliaia di professionisti sono al lavoro per cercare di catturare la nostra attenzione con un mesaggio, un certo contenuto, è una vera guerra con infiniti contendenti che cercano di accaparrarsi almeno i nostri 9 secondi di piena attenzione, prima che altro ci distragga. Il dramma è che anche ammesso di riuscire a catturrare l’attenzione di un lettore o spettatore, non è certo che il messaggio venga correttamente inteso e ben sappiamo che comunicare è una questione, ma capirsi realmente è tutt’altra faccenda.
Il pubblico ride di gusto di fronte all’imperterrito Wallace che continua a parlare mente cose incedibili succedono attorno a lui con un rumore assordante che impedisce al pubblico di ascoltare realmente il suo discorso. Quando torna la calma e lo scrittore ha tutta la nostra attenzione, afferriamo solo poche parole conclusive di un ragionamento, cosa che suscita ilarità, perché, di fatto, ci è impossibile immaginare il pezzo di discorso che non abbiamo udito, mentre il contenuto extra ci ha distratti.
Eppure questa difficoltà di riuscire a comunicare le idee, i pensieri, i sentimenti che abbiamo dentro, crea un altro “pieno” nella mente, una pressione di complicata gestione. Wallace lo testimonia: gli esseri umani hanno bisogno del confronto, di discutere, di condividere a un livello profondo i propri pensieri, di svuotarsi negli altri per abbassare la propria ansia di comunicare.
L’arte ha questa funzione comunicativa. Scrivere, afferma Wallace, equivale a svuotarsi completamente travasando nelle pagine del testo tutti quei pensieri che prima affollavano la mente dello scrittore. Tuttavia creare arte pone l’artista davanti ad un’altra questione: la perfezione.
L’artista desidera che la propria arte corrisponda all’idea che egli ha della perfezione, questo problema è paralizzante, rischia di vanificare il potere di svuotamento della mente che il produrre arte ha.
La produzione rallenta per il desiderio di perfezione, così la pressione interiore sale e diventa insopportabile. Wallace trova la propria soluzione alla questione suicidandosi, in una normale giornata di settembre, dopo aver pranzato con la moglie chiacchierando di possibilità di vedere, di conoscere, poi lascia due pagine all’amata e si toglie la vita. L’opera perfetta, non vedrà la luce.
Il finale dello spettacolo è di alto godimento. Dopo aver dato al pubblico la possibilità di interagire con lo spettacolo, addirittura lanciando verdura agli attori, come tutti gli spettatore ben educati hanno sempre sognato di fare, ripristinando quell’abitudine ormai in disuso, per invalsa cordialità, anche in pesenza di schifezze conclamate, i contenuti extra tacciono, abbiamo una narrazione vera, fluida, che prende completamente tutta la nostra attenzione.
Un racconto, di questo avevamo terribilmente bisogno dal principio, ci mancava la narrazione di una storia. Il nostro desiderio di una storia è stato frustrato per un ora di spettacolo con l’intrusione degli extra, ora vogliamo la nostra storia, la aneliamo come un pesce fuor d’acqua desidera rientrare nel suo elemento.
Il collettivo soddisfa infine il nostro bisogno di un racconto e non deve supplicare attenzione, siamo tutti lì, attentissimi e silenziosi. Il racconto è un insolitamente divertente. È un racconto di morte causato da un incidente stradale, forse chissà, dovuto a mancanza di attenzione alla guida.
Al di là del contenuto del racconto è il narrare in sé che placa il nostro desiderio istintivo di storie, di ascoltare e vedere una narrazione. L’essere umano ha bisogno di storie, meglio certo se ben raccontate, con modalità che ci tengono vigili e attenti. Quest’ultima storia che il collettivo Sottrraneo ci lascia è una storia semplice, agita con grazia attraverso i loro corpi e narrata con una modalità divertente. Siamo appagati, abbiamo avuto la nostra storia, abbiamo capito, annegando anche noi, insieme agli attori, nel mare delle narrazioni, che cos’è l’acqua.