Come ha avuto modo di sottolineare Simone Fana – autore di “Tempo rubato” e “Basta salari da fame” – ai nostri microfoni, la gravissima crisi economica scatenata dalla pandemia è essenzialmente una crisi del capitale. Una crisi «tra pezzi e fazioni diverse di capitale, che mette anche in contraddizione gli interessi dei commercianti, di coloro che dipendono dalla domanda interna e coloro, invece, che vorrebbero aprire i mercati e liberalizzare ulteriormente ed estendere anche lo spazio economico fuori dal contesto nazionale».
Se ciò è vero, abbiamo una possibile chiave di lettura anche dello sbocco della crisi di governo italiana. La chiassosa euforia a rete unificate (che spesso assume toni grotteschi e patetici) nei confronti di Mario Draghi dovrebbe suggerirci che è in atto una ricomposizione della frattura registrata dal capitale stesso.

La sindrome di Stoccolma del popolo italiano

Ad esultare per l’incarico affidato all’ex governatore della Bce sono stati i mercati – quindi la finanza – i giornali di proprietà di grandi gruppi industriali, la stessa Confindustria e le forze politiche ascrivibili, ciascuna con le proprie sfumature, alla dottrina liberista. Questi sono i fatti, difficilmente soggetti ad altre interpretazioni.
In prudenziale attesa di vedere la sostanza, quello che possiamo fare al momento è soffermarci sulla forma. E se quest’ultima è un indicatore, i presagi non sono affatto buoni.
Draghi è stato dipinto come un salvatore, un liberatore dall’oppressione (che sarebbe rappresentata da Conte, ormai dipinto come un sanguinario discepolo di Stalin), l’uomo giusto al momento giusto che, con la bacchetta magica, risolleverà il destino della patria.

Se ci si poteva aspettare questa narrazione dal gruppo di interesse a cui è contiguo, ciò che sorprende è che toni molto simili vengano utilizzati da chi non appartiene, o sarebbe meglio dire non apparteneva, a quel lato del mondo.
Nella stessa melensa ricostruzione della biografia di Draghi hanno trovato spazio le spese al supermercato in compagnia della consorte – inequivocabile testimonianza dell’estrazione popolare di un dio che, c’è da scommetterci, va di corpo esattamente come noi – ma sono state omesse quelle fette di curriculum fatte di privatizzazioni e dottrina neoliberista.
Una memoria selettiva, facilitata dal recente Quantitative Easing e da alcune dichiarazioni rilasciate al meeting di Comunione e Liberazione, che oscura tutto il resto.

È certo che a Mario Draghi non si possa attribuire la colpa di essere se stesso, ma a chi lo incensa pur non appartenendo alla parte privilegiata della società andrebbe almeno suggerita prudenza.
Qualora (e così sembra) l’ex presidente della Bce dovesse riuscire a formare un governo sostenuto dal Parlamento, gli appuntamenti che lo attendono saranno alquanto rivelatori. Se, infatti, Draghi è avvantaggiato dal tardivo abbandono della dottrina dell’austerity da parte dell’Ue, ciò non basta a garantire che le politiche del suo governo possano segnare una svolta rispetto ai problemi esplosi durante la pandemia, ma generati in precedenza dal nostro sistema socio-economico liberista.

Il blocco dei licenziamenti, gli ammortizzatori sociali, le risorse del Recovery Fund (che, vale la pena ricordarlo, sono state conquistate da quello che ora è additato come il nemico pubblico numero uno, Giuseppe Conte), ma anche il salario minimo, le pensioni e il reddito di cittadinanza. Sono questi alcuni dei terreni su cui si misurerà la reale natura di Draghi.
Ed è facile prevedere che, se l’esecutivo ripercorrerà le solite vecchie ricette liberiste, il suo operato sarà accompagnato dalle retoriche classiche dei media mainstream: i fannulloni della pubblica amministrazione, i parassiti del reddito di cittadinanza, i disoccupati lavativi, il cemento green, la contrapposizione tra salute e lavoro, la gavetta precaria necessaria e via di questo passo. Operazioni di mistificazione orwelliana del linguaggio che, mi permetto di azzardare una previsione, torneranno a riempire le pagine dei giornali.

Se ciò che ci aspetta potrebbe rappresentare nulla di nuovo o già visto nel nostro Paese, ciò che personalmente mi spaventa è l’atteggiamento di chi, vessato da un sistema socio-economico che calpesta la dignità delle persone e impedisce a larghe fette della popolazione di accedere ad una serenità economica e al benessere, sta assumendo in queste ore la posizione del proprio aguzzino.
Il rischio cui siamo davanti è quello di una gigantesca sindrome di Stoccolma, accompagnata da “argomentazioni” di autentico darwinismo sociale, che può produrre una gigantesca e pericolosa sbornia di massa.