Il quadro disegnato dalle elezioni di domenica scorsa sottolinea le difficoltà del Partito Democratico, che appare pirandellianamente un personaggio in cerca d’autore.
Seppure il Pd rimanga il secondo partito italiano, è evidente che la sua scelta di non darsi un’identità e una collocazione ben definite, il suo non voler essere né carne né pesce, produce un’erosione di consensi tanto a sinistra quanto a destra.
Lo spazio progressista, in particolare, sembra essere stato occupato dal M5S guidato da Giuseppe Conte, che ha fiutato una zona rimasta scoperta dalle politiche draghiane e neoliberal inseguite dallo stesso Pd. Politiche, però, che a destra dei dem sembrano incarnate meglio, o comunque con più sincerità, da Azione e Italia Viva.

Il Pd vuole essere liberal o progressista?

La polarizzazione della politica, le crisi sovrapposte che stiamo vivendo in questa fase storica, dalla pandemia all’energia, dall’inflazione al clima, non consentono più al Pd di mantenere una posizione nominalmente ambigua. Per molto tempo, infatti, il partito si è assicurato consensi per così dire “tradizionali”, cioè consensi di un elettorato proveniente dal percorso Pci, Pds, Ds che, riscopertosi benestante, non ha avuto particolari problemi a votare un partito che via via si spostava al centro.
L’arrivo di altre forze politiche sul campo ha ristretto gli spazi, costringendo di fatto il Pd a dover scegliere una precisa collocazione: sarà quella liberal o quella progressista?

Fino a pochi anni fa non ci sarebbero stati dubbi. L’ingombrante figura di Matteo Renzi ha spostato di molto l’asse a destra, provocando anche la scissione di Bersani e soci. Poco dopo, però, è successo il contrario: Renzi e Calenda se ne sono andati, ma questa volta non perché il Pd volesse essere più progressista, ma per inseguire le proprie carriere personali.
In questo ping pong, il Pd è rimasto senza un’anima, senza un’identità definita e ne ha pagato il prezzo domenica scorsa. Il congresso che si terrà a marzo, dunque, dovrà anzitutto sanare questa ambiguità e, anche se in questa fase è più importante capire cosa vuole essere il Pd rispetto a chi lo guiderà, la scelta delle figure per la segreteria rivelerà la stessa direzione che il partito vorrà assumere.

Il derby Bonaccini-Schlein di cui si parla in queste ore, dunque, potrebbe incarnare bene la contesa interna al partito. A meno che non si scelga di fare un’operazione alla Matteo Lepore a Bologna, cioè rivendicare un asse molto a sinistra (con la definizione di Bologna come la città più progressista d’Italia), ma praticando politiche che favoriscono i ceti medi e medio alti, che in città si misurano sui temi dell’affitto e della gentrificazione della città, dello spostamento dell’economia verso il turismo e delle grandi opere.
In questo caso il gioco potrebbe anche funzionare per una tornata elettorale, poi il problema si ripresenterebbe alla porta.