La Corte europea di Giustizia ha stabilito che il rilascio di visti umanitari non rappresenta un obbligo per i singoli Stati europei. La pronuncia dopo il ricorso di una famiglia siriana che aveva chiesto un visto al Belgio, ma le era stato negato. Le politiche migratorie dell’Europa generano un paradosso: l’asilo può essere chiesto solo se si giunge illegalmente nel Continente. Ne parliamo con l’avvocato Caterina Bove di Asgi.

La Sentenza dell’Unione Europea

Il 7 marzo la Corte europea di Giustizia del Lussemburgo ha stabilito in una sentenza la discrezionalità del rilascio di visti umanitari dei singoli Paesi membri dell’Unione Europea. In questo modo la corte ha bocciato il ricorso fatto da una famiglia siriana che, nell’ottobre 2016, si era vista negare dall’ambasciata belga in Libano un visto umanitario di 90 giorni. Si tratta dell’ennesimo caso in cui la normativa Ue stride con i principi umanitari da essa stessa sbandierati.
In particolare, il contenzioso riguardava l’articolo 25 della normativa sui visti a validità territoriale limitata che, secondo regolamento europeo del 2009, prevede che ogni Stato europeo possa emettere un visto di 90 giorni, qualora ritenuto necessario, per fini umanitari o obblighi internazionali.

Caterina Bove, avvocato dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), spiega ai nostri microfoni che la famiglia in questione, in fuga da Aleppo, aveva richiesto il visto che presupporrebbe una traduzione sicura e diretta in un paese membro sfuggendo alle traversie e ai canali irregolari delle rotte migratorie.
Dopo il rifiuto del governo belga, la famiglia ha presentato un ricorso, facendo leva sui concreti rischi che avrebbe corso tornando ad Aleppo, allora ancora massicciamente bombardata. Si sarebbero, dunque, trascurati l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sui trattamenti inumani e degradanti, e l’articolo 4 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che regolamenta il diritto d’asilo.

L’avvocato generale della Corte di giustizia europea, Paolo Mengozzi, ha dichiarato che questa disposizione andasse interpretata come obbligo per gli Stati, onde evitare la violazione delle norme sopracitate, e che il Belgio fosse quindi tenuto a rilasciare il visto.
La Corte di Giustizia si è invece discostata – spiega Bove – affermando che la materia non fosse di propria competenza, ma piuttosto del diritto nazionale del Belgio, in quanto la famiglia avrebbe voluto ottenere un visto superiore ai 90 giorni della protezione da esso garantita”.

Si evince un chiaro paradosso per cui il diritto d’asilo esiste ma sussiste soltato una volta che i richiedenti siano arrivati illegalmente sul territorio degli Stati membri.
“L’Europa – spiega l’avvocata – dice che il diritto d’asilo è sacrosanto e va tutelato, ma puoi esercitarlo solo una volta arrivato qui, e come ci arrivi sono affari tuoi. Da un lato l’Europa sbandiera la necessità di contrastare i crimini legati all’arrivo illegale delle persone, dall’altro manca l’occasione di dimostrarlo coi fatti”.
“L’articolo 25 – continua la Bove – dice che uno stato può emettere il visto qualora necessario, ma, collegandolo ad altri principi, dovrebbe emetterlo quando il rischio di trattamenti disumani è concreto. Il sistema attuale, la direttiva europea diritto d’asilo, prevede che il diritto possa essere esercitato solo sul territorio di stati membri, e non presso ambasciate o presso stati terzi”.

Bove è firmataria degli ultimi aggiornamenti del rapporto stilato da Asgi per Ecre (European Council on Refugees and Exiles), network comunitario formato da 90 ong che si occupano della tutela dei diritti dei rifugiati. Dai documenti del report si evince una pressione sempre più forte sui confini meridionali, e un intento programmatico di restringere il diritto all’accoglienza tramite hotspot e nuovi centri di permanenza e rimpatrio.

Da parte dell’Italia emerge, secondo la Bove “una volontà di adeguarsi al clima europeo anche ricorrendo alla forza, nell’identificazione dei nuovi arrivati. Il nuovo decreto – continua l’avvocato – prevede che chi rifiuta di farsi identificare debba essere inviato ai Cie. Ci sono accordi di riammissione che l’Italia sta firmando con alcuni stati africani totalitari come il Sudan e la Libia, da cui emerge un chiaro filo conduttore che si può interpretare nel fatto che l’Italia stessa cerchi di stringere su un diritto che andrebbe garantito in maniera più forte”.

Cristiano Capuano