È a suo modo storica la sentenza con cui la Corte d’Assise di Bologna ha condannato all’ergastolo con isolamento diurno di quattro mesi M’hamed Chamekh, 42enne che nel 2019 uccise bruciandola Atika Gharib, 32 anni, abbandonata poi in un casolare a Castello D’Argile, in provincia di Bologna. L’importanza della sentenza sta nelle motivazioni, che per la prima volta riconoscono il femminicidio come movente, senza ricorrere a formule irricevibili che si leggono purtroppo spesso, come il “raptus di gelosia” o il “troppo amore”.

Violenza di genere, il femminicidio e il patriarcato riconosciuti come movente

L’omicidio di Atika rispose a un «movente femminicida – si legge nella sentenza – maturato per riaffermazione della volontà di possesso “virile” sulla donna, e per barbara necessità di vendicare il proprio malconcepito senso di onore, cui non si è accompagnato alcun pentimento; anzi l’omicidio è stato rivendicato con orgoglio e soddisfazione».
Dalla ricostruzione fatta del femminicidio, l’uomo attirò la donna con la promessa di restituirle i documenti che le aveva sottratto quando lei, residente a Ferrara, lo aveva cacciato di casa e denunciato per molestie nei confronti della figlia minorenne. La vittima aveva raggiunto Chamekh e, una volta nel casolare, il 42enne l’ha soffocata e, per cancellare le prove, ha dato fuoco al corpo e all’edificio.

Come spesso avviene nei casi di violenza di genere, il femminicidio è il culmine di una serie di violenze. A carico dell’uomo, infatti, c’era anche un divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla ex fidanzata e dalla figlia. Secondo i giudici, «È emerso evidente come la condotta omicidiaria non sia stata improvvisata – si legge nelle motivazioni – e tanto meno d’impeto, ma sia maturata e si sia radicata negli intenti dell’omicida, sia stata annunciata nelle minacce di morte, poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo dell’inganno per attirare la vittima e condurla seco nel luogo dell’omicidio, della scelta di questo, dell’apprestamento del necessario per compiere il delitto e per nascondere le tracce, della fuga all’estero successiva».

«La Corte nelle motivazioni ha riconosciuto un’aggravante di genere – osserva ai nostri microfoni Marina Prosperi, avvocata della famiglia della vittima che si è costituita parte civile – Di fatto i giudici hanno dato una definizione appropriata di maschilismo e di patriarcato».
Nella giurisprudenza italiana è la prima volta che viene riconosciuto un “movente femminicida” ed è la prima volta «che tutte queste ragioni vengono ritenute riprovevoli, ma non dal punto di vista etico: dal punto di vista della lesione dei diritti, cioè il diritto alla vita ma anche quello all’autodeterminazione», osserva Prosperi.

Il riconoscimento della violenza patriarcale, dunque, fa capolino anche nelle aule di tribunale, ma l’avvocata non vuole imputarlo alla sensibilità dei giudici: «La sensibilità è un atteggiamento introspettivo. Io voglio parlare proprio di un salto nell’ambito di una coscienza collettiva, che ha raggiunto anche una parte conservatrice della società come è la magistratura».

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