Il Parmesan del Wisconsin, additato spesso come imitazione del Parmigiano Reggiano, in realtà è più simile a quello originario del noto prodotto italiano, sponsorizzato e tutelato. Il pomodoro di Pachino è un ibrido prodotto in laboratorio da una multinazionale israeliana delle sementi. Il Marsala fu inventato, commercializzato e prodotto su larga scala da un commerciante inglese che aggiunse alcool al vino al solo scopo di conservarlo meglio durante il trasporto verso la madrepatria. I millenari vigneti con marchi doc, dop e igp in realtà hanno poco più di un secolo dal momento che nella seconda metà dell’Ottocento un parassita distrusse tutte le vigne presenti sul territorio italiano ed europeo.

Molto di quello che sappiamo sul cibo italiano è inventato e spesso consiste in una strategia di marketing o in un rassicurante fattore identitario.
È una documentata opera di debunking sulla retorica del made in Italy il libro di Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, intitolato “Denominazione di origine inventata – Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani”. Un libro che ormai ha sei anni, che nel frattempo è diventato anche un podcast, ma che continua a far discutere. E che verrà presentato sabato prossimo, 16 marzo, a San Giorgio di Piano all’interno del Festival della Divulgazione.

Il fattore identitario del cibo e le mistificazioni sulle origini

«Volevo smontare il mito della cucina italiana – racconta Grandi ai nostri microfoni – che io non ho mai messo in discussione e anzi mi piace, ma spesso si racconta di una storia millenaria che in realtà è molto più corta di quella che viene narrata».
Attorno al libro e a un’intervista rilasciata dall’autore al Financial Times si sono sollevate molte polemiche, con alcune associazioni di categoria, come Coldiretti, che hanno accusato Grandi di danneggiare il settore agroalimentare italiano. In realtà il libro vuole demistificare i falsi storici e le retoriche che vengono utilizzati per piazzare i prodotti italiani, senza metterne in dubbio la qualità.

Ma perché in Italia c’è questa sorta di nazionalismo culinario? «Senza dubbio è una questione di marketing, ma c’è una causa anche più profonda – osserva Grandi – Il giornalista del Financial Times mi disse che l’Italia sta perdendo la sua identità, che ci sono rimasti solo il calcio e la cucina. Il calcio non va così bene, anche se detto da un inglese che ha perso gli Europei in casa è un po’ peloso».
Difficile però pensare che un Paese che deve la propria varietà anche culinaria agli infiniti scambi e dominazioni possa far leva su un fattore identitario di matrice nazionalista.

Così come la lotta a quello che viene definito “Italian sounding”, cioè le imitazioni di prodotti italiani, a volte si basa su presupposti sbagliati, proprio perché non è vero che il prodotto italiano è sempre quello più antico e originale.
«Anzi, in un certo senso l’italian sounding testimonia il successo della cucina italiana nel mondo», sottolinea Grandi.

Eppure sul cibo l’Italia sembra continuare a puntare tantissimo, non solo per ciò che riguarda le esportazioni, ma anche in relazione al turismo. Nell’ultimo decennio molte città si sono trasformate vedendo un proliferare incontrollato di attività ristorative.
Non fa eccezione Bologna, il cui centro storico è arrivato ad avere un’attività ristorativa ogni 35 abitanti.
«È un problema, perché il settore della ristorazione è un settore difficile, dove ci sono anche problemi strutturali come salari bassi e sfruttamento elevato, quindi è un modello di sviluppo non del tutto auspicabile – osserva Grandi – Ma se un Paese come l’Italia pensa di poter vivere di cibo e turismo si fa del male, perché il valore aggiunto è basso. Non possiamo mantenere gli attuali livelli di welfare e benessere pensando di vivere di caciotta di Pienza e turismo».

ASCOLTA L’INTERVISTA A ALBERTO GRANDI: