L’esponente della scuola chicagoana si conferma uno dei grandi esponenti della musica afroamericana del momento


Il sabato di Saalfelden presenta al mattino  la pianista giapponese Sakoto Fuji in un recital solistico.

Subito l’artista affronta la prova con la consueta capacità tecnica improntata ad una forte impostazione classica. Infatti il tocco sulla tastiera, anche quando segue le orme tayloriane, si dimostra di grande leggerezza ma al contempo di forte incisività. Le sequenze si susseguono sempre ricche di notevole impatto e riempiono la sala Nexus  di musica di spessore. Non mancano le consuete manipolazioni sonore operate su corde e martelletti dello strumento, ma queste situazioni sono sempre funzionali allo sviluppo del brano a seguire.

Chiude una serie di accordi quasi da inno religioso, comunque “disturbato” dalle incursioni eterodosse della pianista.

Un boccone al volo per rifocillarsi e subito si riprende con il trio del violoncellista  Eric Frielander, accompagnato al pianoforte da Sylvie Courvoisier ed agli effetti elettronici di Ikue Morì. La musica proposta vuole collocarsi in un ambito di intimismo fatto di colori a pastello tratteggiati dal perfetto violoncello del leader. A volte però l’alchimia dei progetti pensati non raggiunge i risultati prefissati: così il disegno di Friedlander non riesce a decollare e rimane all’interno di una sorta di vicolo cieco della comunicazione. Non basta la magia del suo tocco sulle corde né, tantomeno, la bravura della pianista, peraltro tanto minimalista da sembrare evanescente,  a tenere alta la tensione malinconica necessaria per un sound come questo.

Ma non c’è il tempo dei rimpianti che già si apre il palcoscenico del Main Concert con una Big Band tutta austriaca: diciassette uomini diretti dal percussionista Mulhbacher. Lo stage diventa luogo di festa con ritmi coinvolgenti e orchestrazioni fatte di  semplicità ed eleganza. Si alternano nella band vecchie conoscenze del festival come i trombettisti Lorenz Raab e Franz Hautzinger. Il pubblico risponde con entusiasmo chiedendo il classicissimo bis da concertone.

Lavorano sodo i ragazzi del’amplificazione per mettere in scena “Unfold Ordinary Mind”, progetto del

contra- alto clarinet di  Ben Goldberg. Ancora sul palco l’onnipresente chitarrista Nels Cline e, affianco a lui, il batterista Chess Smith.

La sezione fiati si completa con la contraltista Kasey Knudsen e il tenor sax Rob Sudduth. Manca il ruolo del basso che viene assunto nell’inusuale  strumento di Glodberg dai toni bassi ed avvolgenti. Infatti è sempre il leader a dare il via ai vari quadri musicali proposti, sostenuto al meglio da chitarra e batteria. I temi proposti sono cantabili ma non scontati, l’orchestrazione complessiva è sapiente.  Forse il limite del set risiede nei due sax, bravi certamente nell’esplicitare i temi in sequenza, ma non sufficienti a tradurli in assoli all’altezza della situazione. Comunque il tutto scorre egregiamente, con proposte originali, sornione, molto a dimensione canzone “dimenticata”.

The Show must go on: è il momento di Kaze, gruppo capeggiato dalla pianista Sakoto Fuji che dagli Short Cuts si ripresenta nel grande teatro. Questa volta con lei troviamo due trombe, Natsuki Tamura & Christian Pruvost, e Peter Orins alla batteria.

L’idea è quella di riunire l’improvvisazione radicale con la filosofia orientale che dilata tempi, spazi e suoni. Impresa difficile, forse velleitaria, perché a giocare con il silenzio si rischia invece di rimanere nel vuoto. Per scalare questa montagna la sola Fuji ha a disposizione il bagaglio degli attrezzi tecnici necessari. Ma non basta: appena la sua tastiera tace rimane ben poco da ascoltare.

Il momento clou della giornata  sicuramente è rappresentato dall’Ensemble Double-Up di Henry Threadgill, guru della storia chicagoana, oggi in veste di direttore d’orchestra di sue composizioni.

L’asse portante del set si basa sulle classiche armonie circolari e caleidoscopiche del Very Very Circus, con alla tuba Jose Davila, al violoncello Christopher Hoffman e alla batteria Craig Weinrib. La novità dell’organico è rappresentata dalla presenza del doppio pianoforte con Virelles e Moran. Una soluzione che garantisce ulteriore spessore alla musica e classicità nell’impasto sonoro. La sezione fiati infine trova due sax: Roman Filiu e l’ottimo Curtis Macdonald.

Henry Threadgill si tiene a lato e periodicamente organizza il suono della band indicando la sequenza degli assoli previsti, miscelando sapientemente i cambi di tono generali. Alla fine Threadgill si sposta al centro del palco e da quel leggio dirige puntualmente un corale fatto di un crescendo finale che corona splendidamente un già pregevole set: seguire i gesti del maestro che disegna lo spartito  ai suoi musicisti offre al pubblico la possibilità di entrare nei pensieri dell’artista, di carpirne le oscillazioni, di entrare empaticamente nella creazione collettiva del gruppo. Rimarrà questo finale di concerto come una di quelle cartoline da non dimenticare per Saalfelden 2014.

Unico rimpianto: se solo Threadgill ci avesse regalato qualche minuto del suo incredibile sax …

Secondo set per Eric Friedlander che propone  al pubblico del Main Stage una musica fatta di malinconiche song, come sempre sottolineate dal suo perfetto  violoncello. Completa il trio  la tastiera (fisarmonica e piano) di Shoko Nagai e le percussioni di Satoshi Takeishi. Rispetto all’esibizione precedentemente descritta dei Short Cuts il prodotto è più compiuto e definito, ma comunque sempre orbitante nell’area dell’intimismo a tinte tenui. L’effetto finale è ineccepibile, anche troppo. Ancora una volta il limite di tale espressione artistica è forse di essere troppo innamorato di un suono di corde  adamantine e il rischio di non riuscire ad evadere da un sogno malinconico, fino a rimanere prigionieri di uno stesso schema ripetuto all’infinito.

Finale all’italiana con Roy Paci & Corleone con il trombettista siciliano che nel tempo ha allineato la sua musica a certi schemi di bande europee che ibridano il rock duro con un certo uso di musica eterodossa: sono gli ultimi eredi delle “Mothers” zappiane, con una gran voglia di divertire e divertirsi in modo giocoso ma del tutto serio. Il risultato è piacevole e certamente non sfigura in questa nobile compagnia di

festival.

La lunga marcia musicale del sabato è finita. Si va al giusto riposo con ancora nella mente le geometrie delle matrioske ritmico- armoniche di Henry Threadgill, uno degli ultimi grandi testimoni della tradizione jazzistica.