Abbandonare al più presto il gas russo. È questo l’imperativo che risuona nei palazzi governativi di tutta Europa da quando Mosca ha dato il via all’invasione dell’Ucraina. La Russia, gigante geopolitico ma nano economico, dipende in larghissima parte dalle sue esportazioni di materie prime – combustibili fossili in testa – e coi proventi del gas finanzia la guerra contro Kiev.

La guerra in Ucraina ci porta ad abbandonare il gas russo, ma le politiche attuali rischiano di peggiorare cambiamento climatico e diritti umani in Africa

L’occidente alleato dell’Ucraina sembra per questo intenzionato a rinunciarci. Ma se l’impresa è facile per paesi come Spagna e Regno Unito, che del gas russo fanno già a meno, molto più complessa è la partita per Italia, Germania e buona parte dell’est Europa, che col combustibile dell’azienda di stato ex-sovietica Gazprom assicurano la stabilità di un bel pezzo del mix energetico. Per questo il Presidente del consiglio Draghi, assieme al Ministro degli esteri Di Maio e l’Amministratore delegato di Eni De Scalzi, ha iniziato un tour dei paesi produttori per rimpiazzare l’export russo con quello di altre nazioni africane ed orientali. Angola, Algeria, Mozambico, Congo Brazaville, Azerbaigian, Qatar e Stati Uniti d’America sono solo alcuni dei paesi a cui il nostro governo conta di rivolgersi.

Dittature e guerre: cosa finanziamo

«Ma se l’obiettivo di questa operazione è non solo geopolitico, ma anche etico, dobbiamo sapere di starci mettendo nelle mani di altri paesi estremamente problematici» ci dice Ferdinando Cotugno, giornalista ambientale che a questo tema ha dedicato recentemente un articolo per il quotidiano Domani. «Partiamo dall’Angola. Si tratta di un paese autocratico, come praticamente tutti i nostri nuovi fornitori. Ha una guerra civile interna a bassa intensità di cui non si parla mai, uno dei tanti conflitti dimenticati. La Cabinda, exclave dell’Angola, cerca da anni di diventare indipendente, ed uno dei vettori di questa spinta autonomistica è l’estrazione del gas, di cui la Cabinda è ricchissima. Altro elemento importante: l’Angola è legatissima alla Russia. Provi ad allontanarti da Mosca, ma la ritrovi anche altrove».

Anche Congo e Mozambico conoscono vicende simili. «Il Congo Brazaville è più pacifico rispetto ad altri: non ha guerre in corso, accoglie addirittura rifugiati dai paesi limitrofi. Ma si tratta di una dittatura, ha lo stesso presidente dagli anni ’70 e gravi problemi di diritti umani. E ancora peggiore è la situazione in Mozambico, esempio da manuale di nazione instabile. Parliamo di uno dei paesi più violenti e pericolosi dell’Africa, uno degli ultimi avamposti dello Stato Islamico. Anche qua, come in Angola, la situazione è triggerata dai combustibili fossili: c’è un enorme scontento da parte delle popolazioni del nord del Paese, che subiscono i danni delle attività estrattive ma vedono i profitti andare altrove. Uno scontento dal quale trae consenso lo jhiadismo. Altra analogia con l’Angola: tra le società petrolifere attive spicca la russa Rosneft. Il Mozambico è davvero paradigmatico: pensiamo di sfuggire all’instabilità di Mosca ma andiamo a rivolgerci a nazioni sul punto di collassare».

Anche l’Algeria e l’Azerbaigian sono nostri fornitori, però, e sono considerati paesi stabili. «È vero, entrambi hanno dimostrato affidabilità nei nostri confronti. E non a caso l’Algeria a regime diventerà il nostro primo fornitore di gas» ci risponde Cotugno. «Ma anche lei ha un conflitto dimenticato: la questione dei saharawi. Parliamo di un popolo con una vicenda simile a quella curda o palestinese: cacciati sul suolo algerino dal Marocco dopo una guerra lunga e cruenta, i saharawi hanno il supporto di Algeri in questa contesa. Ma ciò implica un latente rischio di guerra tra Algeria e Marocco e la possibile inclusione della Spagna, paese ex-colonizzatore». Il caso algerino è anche esemplificativo di come i combustibili fossili possano diventare armi nelle contese geopolitiche. «È come se Putin avesse scritto un libretto d’istruzioni sull’uso delle fonti fossili negli scontri internazionali. Ora quel libretto è open-source e alla portata di tutti. L’Algeria ha dimostrato che potrebbe usarlo e in parte lo sta facendo. Come la Spagna di recente ha iniziato ad appoggiare il Marocco nella contesa saharawi, Algeri ha minacciato Madrid di tagliargli le forniture – e la Spagna dal gas algerino dipende in larga parte». E l’Azeirbaigian? «L’Azeirbaigian è un paese che solo due anni fa, in piena pandemia, ha portato avanti una guerra lampo contro l’Armenia per il controllo della regione contesa del Ngorno-Karabah. Come per l’invasione russa dell’Ucraina, anche questo conflitto è finanziato quasi esclusivamente coi proventi dell’export fossile».

Restano fuori da questa mappa Qatar e Usa, i più ricchi e i più stabili tra i nostri fornitori. «Ma non mancano problemi» ammonisce ancora Cotugno «il primo è un disastro sui diritti umani, il secondo estrae gas col fracking, una tecnica estremamente inquinante».

Olte la geopolitica: i rischi per la transizione ecologica

Assieme alle criticità di ordine geopolitico e in termini di diritti umani, i recenti accordi sul gas pongono interrogativi pesanti anche sul futuro della transizione ecologica. Il 2021 è stato l’anno dei target climatici, gli obiettivi nuovi e ambiziosi in termini di taglio delle emissioni climalteranti. Le Nazioni Unite si sono imposte di ridurre le emissioni globali del 42% entro il 2030. L’Unione Europea ha promesso di raggiungere le emissioni nette zero al 2050. Il rispetto di questi impegni era già in partenza non scontato, ma ora molti si chiedono quale sarà l’impatto del conflitto ucraino su questo tema.

«È difficile leggere ora l’esito dell’invasione russa sulla transizione energetica. Da un lato ci sono tante buone ragioni per credere che questo conflitto porti i governi ad accelerare sulla strada dell’abbandono dei fossili. Dall’altra rischiamo di trovarci incastrati ancora di più nel passato. Il ruolo del gas in questo è ambiguo. Non possiamo smettere di consumarlo all’istante, per un certo periodo rimarrà parte del nostro mix di consumo, ma transizione significa comunque abbandonarlo man mano. Ad ora stiamo proseguendo con una sostituzione uno ad uno: per ogni metro cubo di gas russo perso un metro cubo di gas azero, algerino o congolese arriva in sostituzione. Ma in questo modo non abbandoneremo il fossile né in questo né nei prossimi decenni. Qualcuno dice che il petrolio è un fidanzamento, il gas è un matrimonio. Significa che quando si siglano questi accordi si firmano patti dalla durata decennale, si costruiscono infrastrutture il cui costo richiede decenni d’uso per essere ammortizzato. Sono impegni sul lungo periodo».

E allora che si fa? «Quello che servirebbe in alternativa – parere mio – è trattare risparmio energetico e sblocco delle rinnovabili come abbiamo trattato la campagna di vaccinazione. Stessa urgenza, stesso livello di sforzo. Ad un certo punto sembrava impossibile vaccinare mezzo milione di persone al giorno, ma pur con tutti i problemi del caso ci siamo riusciti. Qualche buona notizia c’è – ad esempio è appena stato inaugurato il primo parco eolico off-shore italiano, a Taranto – ma molti, troppi alti sono ancora bloccati».

A chi dobbiamo rivolgerci, allora. Chi è al timone della nostra politica energetica? «La mappa dei paesi ai quali stiamo chiedendo nuovo gas ricalca fedelmente quella degli interessi di Eni. La politica energetica italiana in questa fase è diretta dalla nostra principale compagnia di stato, e l’Ad De Scalzi dal primo momento ha preso per mano il governo e lo ha guidato»

ASCOLTA L’INTERVISTA A FERDINANDO COTUGNO:

Lorenzo Tecleme