Ha fatto clamore nei giorni scorsi la notizia di una donna che ha affidato il neonato che aveva partorito alla “Culla per la vita” del Policlinico Mangiagalli di Milano. La struttura è pensata appositamente per i casi di donne che portano a termine la gravidanza, ma che per diverse ragioni non sentono di poter accudire e crescere il figlio.
A colpire è soprattutto la gogna mediatica riservata alla donna, con i meccanismi tipici della colpevolizzazione o gli appelli anche di personaggi discutibili affinché ci ripensi.

Le culle per la vita in mano agli antiabortisti, tra propaganda e violazione della privacy

Una possibile spiegazione a quanto accaduto su giornali e televisioni, oltre che nella cultura patriarcale in Italia, potrebbe risiedere nella natura delle culle per la vita stesse, che nel nostro Paese sono egemonizzate dagli antiabortisti cattolici delle associazioni Pro-Life.
A fornire una fotografia dei finanziamenti attorno alle culle per la vita in Italia è la giornalista freelance Rita Rapisardi, che ha scritto per il manifesto un articolo intitolato “Una culla per i Pro-Life“.
«È qualche anno che mi occupo dei movimenti anti-choice e del loro modo di essersi infiltrati negli ospedali – racconta la giornalista – Di per sè le culle per la vita non sono un’iniziativa negativa, ma il problema sta nel fatto che la maggior parte è finanziata apertamente da associazioni cattoliche o antiabortiste».

In particolare, in Italia le culle per la vita sono circa una cinquantina, di cui 30 aperte direttamente dal Movimento per la Vita e un’altra decina si trovano in congregazioni religiose o chiese. «Quelle laiche sono veramente poche», osserva Rapisardi, che spiega anche che dal 1992 ad oggi sono state utilizzate appena una decina di volte.
«Tutte le volte che sono state utilizzate – sottolinea la giornalista – la narrazione mediatica è stata la medesima. All’interno del Mangiagalli, Enea è il terzo bambino che viene affidato e anche nelle precedenti occasioni lo stesso responsabile ha deciso per la pubblicizzazione della storia».

La privacy sia della donna che del neonato, dunque, non è stata tutelata. E, ancora peggio, le culle per la vita vengono utilizzate dai Pro-Life per fare propaganda antiabortista.
«Alla stessa madre di Enea è stato consigliato di rivolgersi ai Cav, che sono i Centri di Aiuto alla Vita, a cui vengono dati spazi all’interno degli ospedali – sottolinea Rapisardi – Le donne che vanno ad abortire possono trovarsi davanti questi personaggi, che possono dissuadere la donna dalla scelta e colpevolizzandola, oppure offrendo alternative all’interruzione di gravidanza, come appunto l’adozione o il progetto Gemma, che prevede aiuti economici per le donne che decidono di non abortire per un anno e mezzo del neonato».

ASCOLTA L’INTERVISTA A RITA RAPISARDI: