Nel giorno in cui si apprende la notizia dell’omicidio compiuto in piazza a Voghera da Massimo Adriatici, ex funzionario di polizia e assessore leghista alla Sicurezza, ai danni di un uomo di origine marocchina, a Genova, in occasione del ventennale del G8, si torna a parlare di verità e giustizia negate.
La cronaca, dunque, conferisce grande attualità alle riflessioni sulla giustizia italiana, che in questi vent’anni ha subìto un imbarbarimento contraddistinto dalla violenza poliziesca e da un sistema giudiziario che continua a non punire gli abusi in divisa, mentre si accanisce contro i manifestanti e i reati contro il patrimonio.

Per la giustizia italiana è più grave danneggiare il patrimonio che pestare le persone

«Il codice penale italiano è del 1931 e notoriamente ha privilegiato la punizione dei reati contro il patrimonio rispetto ai reati contro la persona – spiega Emanuele Tambuscio, l’avvocato che ha difeso i manifestanti a processo per i fatti del G8 – La conseguenza è che ci troviamo un reato di devastazione e saccheggio, unico in Europa se non al mondo, con una pena che va dagli 8 ai 15 anni, che il decreto Sicurezza Salvini ha inasprito a vent’anni se la devastazione è fatta nell’ambito di manifestazioni pubbliche. Gli agenti che hanno torturato, invece, hanno avuto condanne a quattro anni, poi prescritte».

Che la giustizia per i fatti del G8 abbia avuto un peso politico lo testimoniano anche altri elementi. Come l’accusa di “concorso morale” per alcuni manifestanti che non hanno compiuto alcuna azione illegittima, ma si trovavano nei luoghi dove venivano sfasciate vetrine.
Non solo. I magistrati francesi si stanno opponendo all’estradizione di Vincenzo Vecchi, manifestante scappato in esilio, perché la pena inflittagli è sproporzionata, i fatti per cui è stato condannato in Francia sono ascrivibili al reato di furto con danneggiamento.

Sempre Tambuscio mette in fila le riforme del sistema giudiziario che ci si aspettava dopo Genova e che invece non sono mai arrivate. Prima fra tutti la legge che introducesse il reato di tortura. Il reato è stato effettivamente introdotto in Italia nel 2017, ma con una formulazione ambigua e insoddisfacente. Poi vi è la battaglia per il codice identificativo sulle divise delle forze dell’ordine, su cui torna in queste settimane una campagna di Amnesty International. «Centinaia di feriti in piazza a Genova non hanno avuto giustizia perché è stato impossibile identificare gli agenti», sottolinea l’avvocato.
Infine i provvedimenti disciplinari. Tutti gli agenti condannati per i fatti del G8 sono tornati in servizio. E, particolare inquietante, uno di questi è stato mandato dalla Digos genovese a seguire un incontro del ventennale.

«C’è una tortura di sistema – osserva Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone – è un qualcosa che il sistema tiene dentro, non espelle. A Genova le torture avevano un segno, avevano un colore, avevano voglia di repressione politica. A Santa Maria Capua Vetere, invece, si è trattato di repressione ordinaria nelle carceri italiane».
Gonnella punta il dito anche contro le parole ambigue che si sono diffuse a livello culturale in questi anni. «Quando si dice che un detenuto deve marcire in galera – sottolinea il presidente di Antigone – non è troppo diverso che marcisca o venga menato».

È lo Stato, a partire dal governo, ma anche dai vertici delle forze dell’ordine, quindi, che deve agire e per Gonnella può farlo in diversi modi. Prendendo spunto dalle parole del premier Mario Draghi e della ministra alla Giustizia Marta Cartabia, l’esponente di Antigone esorta lo Stato a costituirsi parte civile ai processi per tortura. Una rottura dello spirito di corpo, che spesso è sfociato in depistaggi o omertà.
L’inserimento del codice identificativo, infine, servirebbe per tutelare in primo luogo quegli agenti che operano nella legalità e di proteggerli dalle mele marce.

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