Davide Livermore cerca di parlare al cuore del pubblico dei più giovani che incredibilmente affollano la sala del Comunale Nuveau attratti dai biglietti a 10 € per gli universitari, sgombrando il campo da tendaggi e abiti sontuosi, spiegando che quanto accade sul palco li riguarda. Il racconto etico verdiano del Trovatore, parte della così detta “Trilogia romantica”, che il regista preferirebbe definire “Trilogia degli ultimi”, esplora la marginalità dei diversi, in questo caso mettendo in scena zingari, giostrai, artisti di strada che potremmo trovare accampati con le roulotte nelle nostre periferie e che la notte accendono fuochi nei bidoni per scaldarsi e illuminare gli angoli bui.

Il direttore d’orchestra Renato Palumbo ha egregiamento svolto il compito di porgere al pubblico, come su un vassoio d’argento, la straorddinaria partitura verdiana, mettendone in luce i contrasti timbrici e dinamici, le melodie incendiarie e trascinanti servendosi dei colori orchestrali e delle straordinarie voci del cast che riscuotono applausi quasi a ogni chiusura di scena risultando insostenibile, per il pubblico, contenere l’entusiasmo per ogni regalo che giunge da parte degli e delle artiste. Risuona nell’anima la voce da mezzosoprano di Chiara Mogini che veste i panni della zingara Azucena, la sua presenza scenica è tale da calamitare ogni attenzione, il suo sguardo è magnetico, spicca come una vera protagonista dell’opera, e tale l’aveva inizialmente immaginata Verdi nell’architettura dell’opera, fino al quarto atto quando riprende la scena Leonora, interpretata dalla soprano Marta Torbidoni, la quale recupera centralità, e conquista applausi, fino al suo straziante addio. E’ allora che Azucena si risveglia e viene costretta ad assistere alla morte di Manrico, amato come figlio. Mentre, per volontà registica non prevista da didascalia in partitura, sgozza Il Conte di Luna gli svela che Manrico era in realtà suo fratello, creduto morto in un rogo ove invece, per errore, aveva gettato il suo vero figlio, e chiude l’opera da vera eroina vittoriosa e vindice della madre morta sul rogo molti anni prima per le accuse di maleficio a lei rivolte.

Non da meno delle due protagoniste femminili sono i colleghi sul palco tra cui segnalo l’eccezionale baritono Lucas Meachem che ipnotizza l’uditorio dal suo primo apparire nei panni del veemente Conte di Luna mettendo a segno numerosi punti verso l’obiettivo comune, segnalato dal regista, di scuotere nell’animo l’uditorio, dando a ciascuno/a un valido motivo per essere entrati/e a teatro anzichè aver scelto di uscire a cena o di crogiolarsi sul divano. Non sarà solo Leonora a non poter dimenticare questo Manrico, ovvero il tenore Roberto Aronica. “Di quella pira” viene cantata così semplicemente e pienamente integrata nel contesto, fuori da ogni tentativo di sfoggio vocale, come spesso avviene nei concerti in cui quest’aria viene estratta e isolata da quanto precede e segue, così da far risaltare il dialogo instaurato con l’amata e anche con la madre, a distanza, mentre corre a salvarla e da fungere a chiamata alle armi per i suoi sodali. Aronica convince in ogni momento della sua performance, anche la sua presenza scenica è notevole, non c’è una sbavatura, nessun eccesso, tutto è misurato e al contempo potente, o forse è potente perchè non c’è nulla di superfluo o eccessivo e l’abito da gitano, il codino e l’aria da artista trasandato lo rendono in aggiunta molto affascinante.

Le scenografie virtuali a cura della società di entertainment design D- Work sono molto efficaci, ci consegnano un’atmosfera cupa, fosca, spesso in bianco e nero, talora come istantanee con viraggio seppia: palazzi d’una grande città possono sparire da un momento all’altro per far apparire una tempesa o un incendio di vaste proporzioni, narrando ora paesaggi esteriori, ora quelli interiori dei personaggi in scena.

L’opera si avvia nella nebbia, come davanti a palazzi di uffici in periferia, e nel mezzo, invece di un castello, troneggia sempre una specie di torre/impalcatura. Improvvisamente il cielo si arrossa quando la narrazione si fa più drammatica e vengono evocati roghi e sofferenze, per tornare scuro in chiusura di scena come per uno scatto retrò b/n. Nel secondo atto anzichè essere in un “diruto abituro, sulla falda di un monte della Biscaglia” davanti a un fuoco che arde ai primi albori, ci troviamo nel tendone di un circo che abbiamo già visto nelle videomappature del primo atto, da lontano, insieme a giostre e palazzi di periferia di una grande città. All’interno del circo, le gradinate per il pubblico sono girevoli, il coro le occupa, come circensi festanti, cantando “chi del gitano”, mentre abili mimi e veri acrobati performano uno spettacolo nello spettacolo. L’emozione è grande per l’esecuzione di coro e orchestra e per la perfetta concertazione di tutta l’azione scenica. Così “Stride la vampa”, cantata da Azucena, giunge all’apice di un onda di entusiasmo sia scenico che del pubblico e manca il fiato quando giungono, in pianissimo, gli ultimi echi degli zingari che vanno a procacciarsi il pane cantando ancora “la zingarella”.

La melodia che sentiamo ha una potenza evocativa fortissima e ha il potere di restare nella mente di ogni ascoltatore/trice e sentendola si comprende come fosse possibile che, anche dopo le prime rappresentazioni verdiane, il pubblico uscisse canticchiando brani appena uditi. Nicola Marselli, autore di una delle prime recensioni de Il Trovatore, trovò “chi del gitano” una melodia senza carattere e sembra canzonare Verdi per aver scritto “quella canzone che ogni sorta di lavoratori potrebbe alzarla”. Immagino che il pregio e la fortuna di quella melodia stia proprio nel fatto che chiunque la possa cantare per strada e quanto al carattere sembra piuttosto marcato, foss’anche solo per il suono delle incudini che marcano l’avvio al lavoro. All’uscita del coro non scema certo la tensione, che anzi sale per tutto il drammatico racconto di Azucena a Manrico accompagnato da strumenti nel registro grave che accentuano la rabbia della donna dando la senzazione uditiva del racconto degli “urli di gioia e cinta di sgherri” e sottolineano con tocchi lugubri le parole “mi vendica”. Evolve l’azione e senza che i personaggi si spostino fisicamente le scenografie virtuali ci portano fuori dal tendone, mostrando il paesaggio attorno simile a tante periferie in cui si accampano i giostrai permettendo continui cambi di atmosfera con colori e luci.

Alla terza scena del secondo atto si è scelto di narrare con un solo sipario nero, interno alla scena, quello che doveva essere “atrio interno di un luogo di ritiro in vicinanza di Castellor”. Il nero rende la notte, sicuramente la solitudione del Conte di Luna testimonia come “tutto è deserto” dentro e fuori di lui. Questa soluzione appare molto affine a un teatro povero, un teatro di prosa, sicuramente senza fronzoli, che semba stridere, forse, con il potere immaginifico delle precedenti videoscenografie. Livermore e D- Wok avrebbero potuto portarci in una notte più immaginifica in linea con il resto della messa in scena, resta la potenza della vocalità di Meachem in quella scena e delle armi musicali fornitegli da Verdi in quella emblematica frase musicale di “tutto è deserto” che deflagra di lì a poco nel libero canto “Ah l’amor, l’amore ond’ardo”. Ruota poi la torre centrale, riapparsa forse come evocazione di un castello e ci troviamo catapultati in un ospedale in cui il coro femminile, stereotipamente, viene assunto come infermiere, al posto di vestire i panni, in effetti altrettanto stereotipati, di “coro di religiose”. A parte questa scenografia virtuale ospedaliera che è apparsa fuori contesto, e il precedente uso della torre forse come altare, che però finiva per assomigliare a un pezzo di impalcatura di cantiere, il resto delle scenografie, reali o virtuali, sono state appropriate e capaci di immettere negli stati d’animo dei protagonisti del dramma.

Il 3°atto è ambientato, virtualmente, sotto un cavalcavia, il cielo spesso è inondato da fuochi che ardono così come quelli accesi dentro i reali bidoni posti accanto a copertoni ammucchiati. Viene usato il meccanismo del palco girevole durante il canto del coro costringendo i coristi a camminare sulla scena, cantando, creando un effetto di dinamismo. Azucena è stata catturata dagli uomini del Conte e troneggia a questo punto a centro palco legata, come un istantanea con filtro seppia. Azucena si fa portatrice dei valori poetici di Verdi e si chiede se ci sia un dio per i miseri. Continuamente evocate immagini di roghi e supplizi nelle parole di Ferrando (Gianluca Buratto) e dei coristi nei panni di “esploratori”. Alla scena quinta tornano protagonisti Manrico e Leonora catapultati in un paesaggio da futuro distopico: sul fondo vediamo una città che brucia e un ponte in fiamme. Leonora è in abito da sposa, pronta per un momento lieto, il suo canto è struggente e appassionante. Mentre si preparano a gustare ” l’onda dè suoni mistici” nel tempio, sopraggiunge Ruiz (Cristiano Olivieri) recando notizia che Azucena è “tra ceppi” e “accesa è già la pira”. Qui, come già detto, si apre un momento di incredibile piacevolezza sonora, in cui Aronica riesce a far emergere con evidenza, più ancora che le parole più celebri “di quella pira l’orrendo foco”, il motivo per cui è costretto all’addio, contenuto nel “Ero già figlio prima d’amarti” che lo precipitano a salvare la madre.

Del quarto atto vale la pena sottolineare l’equilibrio sonoro tra il Miserere, che giunge da fuori scena e il canto di Leonora “di te scordarmi?”, i cui sentimenti di dolore sono accentuati dalla pioggia che cade, sempre in proiezione, in un mare nero su una riva ove incombe un ecomostro di cemento fatiscente e grigiastro. C’è un dialogo continuo di grande intensità tra il coro maschile, che giunge come lamentazione funebre, la voce della cantante e quella di Aronica con “Leonora Addio”. Leonora non è tuttavia rassegnata alla morte dell’amato e implora la pietà del Conte. Degne del copione più dark che si possa immaginare le parole di Leonora al Conte “svenami, ti bevi il sangue mio”. In un crescendo d’orrore nella scena seguente siamo nella prigione in cui sono rinchiusi Azucena e Manrico. Qui la videomappatura raggiunge l’apice perchè ci sembra di essere catapultati dentro la cella con i protagonisti, come un filmato in 3D che avvolge gli spettatori e spettatrici. Sulle parole più angosciose di Azucena sentiamo il suono di tromboni a caricarle di presagi luttuosi. Manca l’aria per l’angoscia, come alla zingara. Riecheggia la parola “rogo” e Azucena sembra sentirsi già avvolta dalle fiamme. Anche quando il sonno placa per qualche istante l’ossessività dei suoi pensieri, canta sognando un epilogo diverso e lieto sui monti di Biscaglia.

La messa in scena di Livermore è intensa e coinvolgente, tra presente e distopia cogliamo una realtà marginale fatta di roulotte, di giostre, di roghi per riscaldarsi e di sgherri malavitosi, indovine e artisti di strada. Vediamo una società stratificata, come la nostra, vediamo i miseri e i benestanti, vediamo lavoratori e lavoratrici e potenti. Il teatro parla a noi e parla di noi, sul serio ci riguarda. La musica di Verdi, come afferma il regista, ci aiuta a scandagliare l’animo umano e a riconoscerci nell’umanità ritratta pur se essa “deve imitare il vero in maniera difettosa” per svelare qualcosa che si cela nella realtà e che nel quotidiano non vediamo, perchè ci sia svelamento ci serve osservarla dal di fuori.

Per questo ha ancora senso allestire opere lirichie e proporle al pubblico anche dei più giovani: ci serve uno specchio in cui osservarci e poi c’è la musica di Verdi, in particolare di questo titolo, talmente trascinante da non poter certo essere messa in naftalina. Ora che l’opera lirica italiana è diventata patrimonio immateriale dell’Unesco è importante che rappresentazioni come questa vengano fruite da tutte le fasce d’età e di reddito della nostra reale società stratificata e composita. Sono importantissime le politiche dei prezzi dei teatri lirici e promozioni come quella attivata dal Teatro Comunale di Bologna per le repliche del 18, 21 e 23 febbraio e le normali promozioni per gli under 18 e gli under 30 e 35 che hanno portato a riempire completamente il teatro alla recita a cui ho partecipato, il 23 febbraio, permettendomi di gioire davanti a gruppi di ragazzi e ragazze in divisa scaut presenti con i rispettivi capi scout, a numerose famiglie con bambini e a decine di giovani universitari (mi piacerebbe tra l’altro sapere esattamente quanti biglietti a 10€ sono stati venduti in queste tre repliche e quanti under 18 e under 35 hanno visto questo titolo e se sono stati di più che per precedenti titoli dell’ultimo anno).

La promozione dell’opera lirica presso le giovani generazioni tuttavia non può essere fatta solo attraverso buone politiche di prezzi a cura dei singoli teatri (da incentivare, pensando anche a tariffe famiglie con sconti anche per gli adulti genitori che possono accompagnare i minori, e a scontistiche per gli over 35 paragonabili a quelle dei teatri di prosa su presentazioni di tessere di vario tipo, per rendere sempre meno elitario il teatro d’opera), ma serve l’impegno anche del ministero dell’Istruzione e della Cultura per portare più musica in tutti gli ordini di scuole creando occasioni perchè non sia impossibile che anche a un minore capiti di canticchiare “chi del gitano” o “ah l’amor, l’amor ond’ardo”. La trasformazione sarà compiuta e il futuro dell’opera assicurato quando tra gli sponsor non vedremo solo marchi del lusso, ma anche marchi di prodotti e servizi per giovani perchè vorrà dire che riconosceranno come target del teatro non più solamente cittadini e cittadine ad alto reddito. Nell’attesa buon canto a tutti e tutte.

Ultima replica, con il secondo cast, domenica 25 febbraio ore 16, ancora alcuni posti disponibili. Under 18 € 5,30; Under 30-35: 54,06€- 69,96 €; intero 90,10€, 116€.