La Corte d’Appello del Tribunale di Torino ha in parte ribaltato la sentenza di primo grado nel processo intentato da alcuni riders a Foodora, piattaforma di delivery. Insieme all’avvocata dei riders, Giulia Druetta, scopriamo nel dettaglio quali dei ricorsi dei ciclofattorini sono stati accolti e riconosciuti e quali respinti.
Lo scorso 11 gennaio la Corte d’Appello di Torino ha ribaltato la sentenza di primo grado nella causa intentata da alcuni riders contro Foodora, una delle piattaforme di delivery che operano in Italia.
I ciclofattorini avevano portato in tribunale i propri datori di lavoro in seguito al licenziamento per aver protestato e rivendicato diritti minimi per questa nuova forma di lavoro. In particolare, i riders sostengono che il loro lavoro è a tutti gli effetti subordinato, mentre l’azienda li considera come lavoratori autonomi.
In primo grado il giudice aveva respinto le istanze dei lavoratori, rigettando di fatto le argomentazioni secondo le quali il lavoro di ciclofattorino per le piattaforme digitali sia da considerare subordinato.
La Corte d’Appello, però, ha in parte smontato l’assioma del primo grado, accettando alcuni dei ricorsi presentati dai riders, assistiti dall’avvocata Giulia Druetta, insieme a Sergio Bonetto. In attesa delle motivazioni della sentenza, ai nostri microfoni Druetta spiega nel dettaglio quali punti sono stati riconosciuti dalla Corte d’Appello e quali no.
“È stato riconosciuto che l’organizzazione del lavoro era stata fatta dal datore di lavoro e sono state riconosciute quindi le differenze retributive come fattorini inquadrati al quinto livello della logistica – sintetizza Druetta – Hanno invece respinto la domanda sul licenziamento, sulla sicurezza e sulla privacy“. In ogni caso, secondo l’avvocata, si tratta di una parziale vittoria, del superamento di uno scoglio importante (quello del riconoscimento della subordinazione), mentre occorrerà lavorare sui punti respinti.
Nello specifico, ciò che la corte ha riconosciuto è che i fattorini di Foodora devono essere trattati a livello retributivo, assicurativo e previdenziale come dei fattorini inquadrati al quinto livello del contratto collettivo nazionale della logistica.
“Questa è una grande vittoria perché queste aziende stavano di fatto accumulando capitale sulle spalle dei lavoratori, pagandoli cifre miserabili: 5 euro lordi all’ora – sottolinea la legale – Ora bisognerà leggere le motivazioni per capire quali elementi hanno valorizzato per accogliere la domanda e quali invece non hanno ritenuto provati per quanto riguarda il licenziamento, la sicurezza e la privacy”.
Su quest’ultimo punto, però, gli avvocati battono il tasto in modo significativo. Forti di una sentenza della Cassazione francese, sottolineano come la geolocalizzazione dei lavoratori, seppur necessaria al funzionamento del sistema stesso di delivery, vada però incrociata con la registrazione dei dati della prestazione minuto per minuto, insieme alla possibilità di valutare l’andamento della prestazione, attraverso strumenti come il rating, le classifiche, così come le sanzioni che portano ad una riduzione o un’esclusione del lavoratore.
Tutto ciò rimane oggetto di un procedimento davanti al garante della privacy.
Ma la sentenza della Corte d’Appello di Torino potrà fare giurisprudenza e aiutare altri riders che volessero far causa ai propri datori di lavoro perché non si vedono riconosciuti i diritti basilari?
Su questo Druetta appare molto cauta. “Se ti trovi nella medesima situazione questa sentenza è applicabile – osserva l’avvocata – però noi sappiamo che ogni sei mesi le piattaforme cambiano l’organizzazione del lavoro, che sia per fini di miglioramento del servizio o a fini elusivi della normativa lascio valutarlo agli ascoltatori”.
In ogni caso, per Druetta la sentenza dovrebbe spronare le aziende ad uniformarsi ai trattamenti retributivi, assicurativi e previdenziali per i lavoratori. Finora proprio le piattaforme hanno cercato di sottrarsi alla trattativa sindacale e al modello impostato sul contratto collettivo nazionale. “Nella stessa Foodora abbiamo visto alcuni lavoratori che avevano il contratto subordinato e altri lavoratori, a pari mansioni, inquadrati come lavoratori autonomi. Questo non si può fare, avviene quando c’è un abuso”.
ASCOLTA L’INTERVISTA A GIULIA DRUETTA: