Tim Berne, Mari Halvorson, Jenny Scheinman e Aki Takase in un sol giorno: e vi sembra poco?
Il sabato del villaggio jazzistico si apre con il gesto e la recitazione che si fanno musica e dialogano con chitarra e batteria. Loro sono i Wess Wande: l’attore Christian Reiner, il chitarrista Karl Ritter e il batterista Herbert Pirker. La performance del trio austriaco ha la P maiuscola e i tre dimostrano ampiamente di essere a Saalfelden non certo per una questione di “quote” patriottiche, ma di guadagnarsi ampiamente l’interesse ed il convinto applauso del pubblico che anche questa mattina affolla gli Short Cuts. Difficile promuoverne un musicista a discapito degli altri, tanto è intenso ed inscindibile l’interplay del set che mantiene viva la tensione e l’inventiva fino al termine del concerto.
Certamente però il clou della mattinata arriva poi con “Old and Unwise”. Il vecchio e Malaccorto è Tim Berne al contralto, splendidamente coadiuvato da Bruno Chevillon, lo scintillante bassista dell’area di Lione.
Come sempre la poetica musicale di Berne entra in punta di piedi nella creazione improvvisativa, assolutamente restio ad ogni effetto speciale o volontà di stupire chi ascolta. Le frasi sono apparentemente fragili, ma in realtà risultano una tessitura fortissima con la quale costruire un disegno generale del tutto coerente. L’operazione di cesello viene amplificata dal contrabbasso di Chevillon, una dolcissima e malinconica eco di suoni prodotti dall’eccelsa tecnica del musicista e del suo pizzicato: le corde dello strumento rispondono docili all’artista e l’ingombrante strumento in legno sembra improvvisamente tramutarsi in un arpa dalle nitide sonorità.
Vinto il salto del pasto, specialità olimpica di gran moda quest’anno a Saalfelden per un cartellone che non dà tregua, corriamo al MainStage per incontrare il quintetto di Giovanni Guidi, giovane pianista umbro ormai già posto stabilmente nel jet set jazzistico. Guidi si presenta con Dan Kinzelman al tenore, Shane Endsley alla tromba, Franceso Ponticelli al basso e Gerald Cleaver alla batteria. Questo rinnovato combo non delude le attese e la musica presentata è ricca di bei temi, di adeguata orchestrazione e capacità di tenere il grande palco del festival. Il piccolo tastierista si muove con sicurezza al comando della truppa e non esita nemmeno ad avventurarsi in preludi pianistici che strizzano pure l’occhio ad un Jarrett riletto in maniera personale. Il concerto va e l’onore del tricolore anche per quest’anno è salvato.
Attesissimo a seguire arriva l’intervento di Mary Halvorson, chitarrista del Massachusetts allieva di Braxton, player che proprio qui due anni fa si presentò all’Europa come uno dei più interessanti innovatori della chitarra. La formazione che l’accompagna è di prima qualità: i compagni di tante battaglie John Hebert (basso) e Chess Smith (batteria) + due fiati di primo piano quali il saxofonista Jon Irabagon e la tromba di Jonathan Finlayson. Il sound presentato conferma la novità della Halvorson dagli “altri suoni”, fatti di timbrica e fraseggio differenti e nettamente eterodossi. Il contesto generale vive di una partitura complessa, costruita su piani armonici sovrapposti che obbligano tromba e sax ad una ferrea disciplina, confinandoli in ruoli di supporto. Forte e solido risulta l’accompagnamento di Hebert, mentre il non precisissimo drumming di Smith scandisce i segmenti del tutto. Le intenzioni di indagine e ricerca della chitarrista sono evidenti e meritevoli, purché l’ottima chitarrista tenga sempre a mente che la continua ricerca di una progressiva complessità di scrittura non garantisce sempre altrettanta profondità di linguaggio musicale: a volte il cuore dell’espressione artistica sta proprio nelle cose grandi narrate con semplicità.
Cambio di palco ed arriva Jenny Scheinman.
E’ qui la festa? Pare proprio di sì, visto che lo stage di Saalfelden sembra tramutarsi in un saloon degli States dove la musica fa allegria, fa piangere e fa ballare. Il quartetto della violinista in realtà, dietro la patina svagata e un po’ cialtronesca, si tiene su di una base d’acciaio fatta di Jim Black alla batteria (come sempre superlativo), Nels Cline alla chitarra elettrica (virtuoso che non scopriamo certo oggi!) e il solido Todd Sickafoose al basso. Un gruppo rock con pochi rivali. Ed è proprio la qualità dei suoi adepti che fa sfuggire il sound dalla volgarità o, peggio, dalla banalità di jazzisti travestiti da rockabilly. La festa è assicurata, la qualità anche.
Ore 21.30, il MainConcert trattiene il respiro, la sala si affolla di pubblico, l’aria si fa importante: è il momento del grande tributo ai mitici artefici dell’AACM chicagoana, coloro che hanno profondamente segnato la storia del jazz negli anni ’60 e ’70 : Henry Threadgill – alto saxophone, Roscoe Mitchel – alto & soprano saxophone, Wadada Leo Smith – trumpet, Amina Claudine Myers – piano, George Lewis – trombone, Leonard Jones – bass, Thurman Barker – vibes, percussion, Reggie Nicholson – drums. Tutti loro capitanati dal “Primo”, Richard Muhal Abrams, l’ottantunenne pianista a capo della blasonatissima big band,guru riverito e rispettato dall’intera area chicagoana.
L’emozione è tanta, la presentatrice introduce uno per uno i grandi eroi accolti da grandi applausi, il tempo si ferma, un minuto di concentrazione dei musicisti rivolti alla Mecca, il risuonare araldicamente dei gong percossi da Nicholson, la mano di Muhal che si alza e poi… e poi più nulla, perché i musicisti sono arrivati ma la loro musica si é persa qualche decennio addietro. Ci fermiamo qui, con un saluto ed un grato ringraziamento a chi ha riempito la nostra vita di suoni ed emozioni. Solo ci viene in mente il vecchio Guccini e i suoi eroi che “sono sempre giovani e belli”.
Una fata maligna di Saalfelden aggiunge al già compresso programma di sala un trio anonimo: Kalle Kalima alla chitarra, Oliver Potratz al contabbass e Oliver Steidle alla batteria. Il sound ha il merito di una certa originalità, ma ha il demerito di non essere sorretto da particolari virtù esecutive.
La giornata si conferma un appuntamento largamente dedicato alle donne in musica: dopo Jenny Sheiman e Mary Halvorson arriva anche il “New Blues Project” della pianista giapponese Aki Takase, un lavoro che rilegge storie gloriose del jazz con un’ottica divertita e trasggressiva. L’amore della Takase per personaggi quali Fats Waller non è certo un mistero: così brani come Jiggerbug Waltz, Squeeze Me e Honeysuckle Rose scorrono riletti con gusto e capacità dal gruppo: Eugene Chadbourne al banjo (bravissimo nel canto vintage degli anni d’oro), Rudd Mahall ad un clarinetto basso suonato quasi fosse un manzello, Nils Wogram al trombone e il Paul Lovens alla batteria swingante. Il tutto tenuto dallo stride della Takase. Attenti però alla falso revival: nelle orchestrazioni dei pezzi irrompono esplosioni di modernità, con la pianista giapponese che riscopre la sua anima di esponente dell’avanguardia contemporanea, Chadbourne che non rinnega la sua antica concezione di uso radicale della chitarra e Paul Lovens che rivive l’epopea delle ricerche da Globe Unity.
L’accostamento delle cose di ieri con quelle di oggi funziona: la musica evoca tempi passati senza buttare un fumo di malinconia artefatta negli occhi di chi ascolta.
Tutti a letto velocemente perché domani ci aspetta un altra giornata da leoni per chiudere il Festival Jazz di Saalfelden.