Il Jazz è Bello perché è Vario: dalla tradizione all’avanguardia i mille volti della creatività
Una coppa di jazz piena di ottima musica: la formula un buon bicchiere di vino + concerto non ha tradito le attese.
In questa sede parleremo solo dei set musicali, anche se ci rimane nel palato il dolce fruttato di un cabernet invecchiato come si deve.
Prima serata tutti al Teatro di Cormòns per l’arrivo del Bobby Previte Bump, con il band leader alla batteria, Wolfgang Puschnig all’ alto, Gianluca Petrella al trombone, Wayne Horvitz al piano e Steve Swallow al basso elettrico. La musica è lineare, quasi grafettistica, cosa tipica della musicalità di Previte. Il blocco ritmico viene assicurato dal perfetto duo batteria/basso ed offre ai solisti un piano granitico su cui improvvisare. Sempre bravo Puschnig al sax, mentre Petrella da tempo non è più solo una promessa interessante ma un improvvisatore consacrato ai migliori livelli internazionali. All’interno del sound complessivo si staglia l’incredibile capacita del percussionista di giocare sui tempi, continuamente immerso in indecifrabili anticipi o ritardi ritmici, in una giostra dei tamburi che mai fa perdere, nemmeno per un attimo, lucidità al drumming complessivo.
Venerdi mattina, puntata la sveglia, vede il pubblico spostarsi nella quattrocentesca chiesa di S.Giovanni per il duo degli Eretici, al secolo Roberto Gemo alla chitarra e Saverio Tasca al vibrafono. Nello scenario magico dell’antica cappella i due musicisti dispiegano un interplay ricco di suggestioni sonore, dove risulta evidente l’influenza “friselliana” nella chitarra di Gemo e dove a volta la mancanza di solida trama narrativa viene occultata dall’eco sonnoro del sound.
Si torna a teatro per il That Trio (Uwe Oberg: piano – Paul Rogers: 7 string doublebass – Emil Gross: percussioni), gruppo di improvvisazione radicale capitanato dalla tastiera di Oberg che spesso immette stimoli di intuizione improvvisativa. Risponde lo strano strumento del bassista sia al pizzicato che all’archetto. Non pervenuto invece il giovane batterista che non coglie queste sollecitazioni, imperterrito nel suo drumming, quasi monade impermeabile in un soliloquio autistico.
Diretta di Rai Radio Tre alle 21 per Violet Orchid Suite, antemprima mondiale di Rob Mazurek Starlicker, con ospite d’eccezione la flautista Nicole Mitchell. Completano il combo l’esuberante Jason Adasievitz al vibrafono e John Herradon alla batteria.
Il sound è compatto, estremamente compresso anche scenicamente, dove batteria e vibrafono “assediano” la cornetta di Mazurek e il flauto della Mitchell. I temi si incastrano uno dentro l’altro e gli spezzoni di concerto altro non sono che tasselli di un unico grande disegno. Sottolineatura per la brava flautista, dal soffiato grintoso e dallo scat vocale efficace.
Andiamo all’estero, nella Nova Gorica slovena. Qui ci aspetta l’esibizione del Christy Doran’s New Bag (Christy Doran: electric guitar & composition – Hans-Peter Pfammatter: keyboards – Vincent Membrez: Moog-bass-synth Dominik Burkhalter: drums – Bruno Amstad: voice). Entriamo a buon diritto in quel rock progressivo, figlio delle Mother of Invention, che cerca l’avanguardia senza voler rinunciare all’arte del comunicare. L’impasto del gruppo è estremamente convincente, in particolare nelle linearità d’assolo del chitarrista leader del gruppo. Accanto a lui Bruno Amstad che, oltre all’esposizione tematica delle canzoni, si inventa suoni vocali inseriti in una trama elettronica, fino ad intonare una ballata dal sapore irlandese giocata su i bordoni vocali da lui stesso progressivamente costruiti attraverso l’uso del campionatore.
Tornati in patria a Cormòns ci immergiamo nel più completo minimalismo del Trio Davis-Laubrock-Rainey (Kris Davis: piano – Ingrid Laubrock: tenor & soprano saxophones – Tom Rainey: drums). Si parte con un brano che terrorizza la platea, un rarefatto silenzio che avrebbe fatto impallidire persino la buon anima di Morton Feldman. A seguire, sempre in una logica ferrea del piccolo tratto ad oltranza, i pezzi presentati offrono maggiori spunti di osservazione, dove si evidenziano le “suonerie” da carillon della tastiera della Davis e la sapiente tessitura della batteria di Rainey.
Sabato sera il pubblico corre ad affollare la grande sala, dove si attende l’arrivo del gettonatissimo John Abercrombie. L’anziano chirarrista si presenta con un gruppo d’eccezione: Joey Baron alla batteria, Marc Feldman al violino e Thomas Morgan al basso. La musica è meno prevedibile che in altre occasioni e il sound si bilancia tra le corde di Abercrombie e l’archetto sempre perfetto di Feldman. Dietro la punteggiatura millimetrica di Baron e, ultimo all’arrivo, un Morgan probabilmente ancora acerbo per una compagnia del genere.
La domenica del villaggio jazzistico si apre con il trio vincitore del premio Massimo Urbani 2011: Fabio Giachino al piano, Davide Liberti al basso e Ruben Bellavia alle percussioni. Siamo in un’area mainstream fatta di rivisitazioni di antichi standars di Dolphy e Mingus, brani comunque riletti con arguzia e capacità, condizione questa che strappa il set al rischio del Deja Vue.
Avviciniamoci alla conclusione con il duo del serbo Bojan al pianoforte e il francese Julien Lourali al soprano ed al tenore. Man mano che l’esecuzione procede ci troviamo immersi in una strana aurea fatta di balcani ed impero ottomano, di modalità coltraniane e di invenzioni malinconiche quanto grottesche. L’accordo funziona e conquista giustamente l’applauso finale del pubblico.
Gran chiusura con Steve Coleman, l’uomo della Mbase Music. Lo statunitense si presenta in trio con David Virelles alle tastiere e Kassao Overall alla batteria. L’organizzazione musicale è volutamente ridotta ai minimi termini, affinché Coleman possa disegnare a lungo il suo fraseggio rapper/bop. Il tono dello strumento è caldo e graffiante, idoneo a costruire quei suoni obliqui trasversali, quasi scale musicali di Escher, una lucida matrioska di motivi e sviluppi solistici di grandissimo valore.
Il set è denso, complesso da seguire nella sua assoluta essenzialità fatta di esclusiva grammatica solistica: nella sala l’atmosfera è tesa, da tagliare con il coltello. Un respiro collettivo trattenuto fino all’esplosione finale di applausi, dopo l’ultimo gioco del contralto finito nel silenzio.
Ben meritato il brindisi finale che va a sancire un festival che, alla faccia dei tagli e delle mille difficoltà economiche, ha saputo riconfermarsi come un punto di approdo per jazzisti in cerca di vecchi e nuovi sogni.
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