Qualche giorno fa, su tutti i giornali nazionali e non, è uscita la notizia del femminicidio di Giulia Tramontano da parte del suo compagno, Alessandro Impagnatiello. A differenza di tanti altri casi di femminicidio, compreso quello che ha visto vittima Pierpaola Romano solo qualche giorno dopo, se ne è parlato in tutti i talk show, testate giornalistiche, edizioni dei telegiornali e ne è scaturito anche un acceso dibattito sui social. Perché? E soprattutto, quali sono gli errori che ancora dilagano negli articoli di giornale in cui si parla di femminicidi?
Gli errori nel racconto del femminicidio di Giulia Tramontano
Nonostante nel caso di Tramontano «anche nei media mainstream si sia parlato di femmincidio, un termine che ha impiegato davvero molto tempo per entrare nella narrazione delle maggiori testate giornalistiche», ha sottolineato ai nostri microfoni Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista, attivista femminista e ricercatrice, non sono mancati gli errori da parte dei giornali e talk show. Per prima cosa, infatti, «la narrazione dei media italiani punta molto al sensazionalismo e alla morbosità. Addirittura sono uscite le chat tra lei e il suo omicida», continua Romagnoli.
Continua inoltre ad essere molto frequente la dinamica che viene definita “vittimizzazione secondaria”: si fa, infatti, riferimento a ciò che la donna avrebbe potuto fare o non fare per evitare di essere uccisa, come per esempio ha affermato la procuratrice generale Letizia Mannella in un video pubblicato da diversi giornali. L’episodio di Tramontano ci insegna, secondo Mannella, che le donne devono smettere di recarsi al cosiddetto appuntamento chiarificatore – nonostante i due vivessero insieme – eppure «per quanto riguarda l’uomo che uccide c’è sempre il tentativo di ammorbidire e giustificare; in questo caso è uscito fuori il troppo stress, per esempio», ricorda Romagnoli. «Ma più in generale l’uomo viene quasi sempre dipinto come un mostro, spesso in balia di raptus emotivi, «ma non è in questo modo che si risolve la questione, anche perchè in psicologia, da un punto di vista patologico, non esistono i raptus, quindi i colleghi e le colleghe che continuano ad usare questo termine peccano anche nella preparazione».
Infatti secondo Romagnoli «il problema che non esce mai fuori è che la violenza è una questione strutturale e non emergenziale. I femminicidi sono solo la punta dell’iceberg, ma prima di arrivare a queste morti c’è tutta una serie di forme di violenza molto diffuse che riguarda tantissime donne. Non c’è mai un ragionamento collettivo che inchiodi la politica alle proprie responsabilita, ovvero la mancanza dei fondi ai centri antiviolenza o alle associazioni che vorrebbero lavorare nelle scuole». La questione, infatti, si colloca alla radice di come siamo, e dunque alla mancata educazione sentimentale ed emotiva. «Questo problema, ovviamente non si può risolvere quando si è adulti ma è necessario agire durante l’adolescenza e ancora prima nell’infanzia», sottolinea la giornalista.
La questione della violenza nei confronti delle donne è trasversale e non riguarda, ad esempio, la distinzione tra Nord e Sud Italia, ma attraversa qualsiasi regione geografica e classe sociale, permeando tutta la cultura italiana. «Infatti, fino al 1996 lo stupro è stato considerato un reato contro la morale e non la persona e questo è significativo per capire quanto sia radicata la concezione patriarcale della donna come proprietà degli uomini della famiglia», aggiunge Romagnoli. Spesso e volentieri infatti le violenze partono da affetti molto vicini per poi arrivare ai fidanzati e i compagni.
A caratterizzare il caso di Tramontano è anche il fatto che la donna fosse incinta, elemento su cui la maggior parte dei giornali «ha insistito dal momento che lì, attualmente, si trova un terreno molto fertile», ha aggiunto Romagnoli. Si è parlato molto di duplice omicidio, per esempio, e addirittura il Corriere ha pubblicato una lettera scritta dalla sorella di Tramontano ipotizzando quello che il futuro figlio della donna avrebbe potuto scrivere alla madre. “Io sono una persona, non una gravidanza” , si legge nella lettera. Eppure sarebbe importante che i giornalisti e le giornaliste ricordassero che finché non si nasce non si può essere uccisi, tant’è che giuridicamente esiste una grande differenza tra persona e feto. Affermazioni del genere non fanno altro che rafforzare le tesi delle persone antiabortiste che sostengono proprio questo: abortire corrisponde a commettere un omicidio.
Ma allora qual è il modo migliore per raccontare un femminicidio?
«Per prima cosa è fondamentale continuare, e laddove non è ancora stato fatto, cominciare a farlo – osserva la giornalista – Ma soprattutto bisogna smettere di insistere sui dettagli morbosi o raccapriccianti; non insistere nel cercare di trovare delle giustificazioni che non ci sono nei confornti dell’uomo che uccide; evitare due pesi e due misure a seconda che l’assassino sia italiano o straniero e non continuare a insinuare errori o difetti che possano mettere in ombra la donna uccisa». Inoltre è necessario evitare titoli ad effetto in cui si insiste su particolari agghiaccianti. «Non esistono nè mostri nè giganti buoni, esitono solo uomini che uccidono perché le donne dicono di no».
Sofia Centioni
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