L’Arena piena per vedere il teatro pensato da Emma Dante e non delude, il pubblico si alza in piedi agli applausi per sopperire ai volti gioiosi coperti dalle mascherine. “Misericordia” è travolgente, divertente, pieno di amore e tenerezza. Pur raccontando un ambiente squallido, quello che emerge è calore e solidarietà.
Emma Dante lavora con le sue attrici e attori a lungo sulle idee iniziali di spettacolo, improvvisazioni su determinati spunti testuali o tematici o musicali portano a elaborare delle scene, a immaginare sviluppi possibili. Il processo ha un esito non predeterminato che dipende dal “materiale umano” a disposizione e lungamente scelto e selezionato dalla regista. La creatività delle attrici e attori della compagna, la loro bravura, le loro invenzioni collettive, guidate dalla visione registica, fanno lo spettacolo finale pensato come offerta allo sguardo peccaminoso del pubblico, senza vergogna dei propri corpi in una giostra infernale di sofferenza.
Misericordia è uno spettacolo corale, delicato e poetico e al contempo duro e spietato rispetto alla realtà che teatralmente mette sul palcoscenico. Se nel racconto c’è degrado e sporcizia, sul palco non c’è vera immondizia ma coloratissime bottiglie e plastiche che dipingono un mondo che cita il lerciume e la desolazione di una casa miserevole. Quando si evocano indicibili violenze su una donna incinta da parte del suo partner, quello che si vede è una danza collettiva così come lo sfruttamento sessuale dei corpi delle donne da pare di clienti è sublimato in una danza da video sexi.
All’inizio vediamo tre donne sedute su seggioline da bambini, quelle che spesso si vedono al sud fuori dalle porte con sedute donne o uomini anziani che guardano quelli che passano. Le tre donne, distanziate, disposte frontalmente, fanno a maglia urtando i ferri da calza producendo uno scalpiccio che si fa ritmo, sul quale si muove un ragazzo seduto su una quarta seggiola in mezzo alle donne. Da un movimento inizialmente solo ondulatorio, riconducibile ad una malattia mentale, ad un ritardo psichico forse, il gesto si fa più ampio e diventa danza. Quando il rumore dei ferri dal calza si interrompe, anche la danza cessa e il gesto torna quello più tipico legato ad un handicap. L’iperattività del ragazzo, per tutto lo spettacolo diventa gesto artistico, danza, libertà, come a tradurre nello spazio, attraverso i mezzi del teatro, le intenzioni e la volontà interiore di comunicare di Arturo, questo il nome del giovane menomato che le tre donne accudiscono dalla morte della sua mamma, Lucia. Durane il corso dello spettacolo veniamo a sapere che Lucia è morta dopo il parto per le botte del compagno, il falegname detto “Geppetto” dalle cui “legnate” nacque, con gravi problemi dovuti ai traumi subiti ancor prima di nascere, il piccolo Arturo.
Sembra una storia come tante. Un uomo già violento, che indirizza la sua rabbia sulla compagna gravida, forse proprio per farla abortire, per evitare una responsabilità in più. Una donna muore. L’orfano è accolto, come fosse figlio loro, da tre donne che condividevano uno squallido appartamento con la giovane madre. La gioia dell’accudimento diventa per le donne un modo per contrastare il disgusto per la loro stessa miserabile esistenza fatta di litigi per piccole cose tra un cliente e l’altro.
Irrompe infatti, improvvisamente, un nuovo tema, non preannunciato nel bel mezzo di una scena casalinga fatta di abiti dimessi, discussioni su fette di prosciutto e sottilette sottratte dai rispettivi scomparti del frigo. Da una conversazione identificabile come da “zitelle di mezz’età”, si passa ad una scena da bordello 2.0. Una musica araba ad alto volume, le tre donne in biancheria intima, capelli cotonati e tacchi alti, mimano, con bottiglie d’acqua alla mano, rapporti sessuali con i loro clienti, per poi ricalarsi, con molta naturalezza, nei soliti abiti casalinghi e riprendere le conversazioni lasciate a metà qualche tempo prima con le coinquiline.
Anna, Nuzza e Bettina sono tre prostitute, si alzano dalle seggioline per offrire i loro corpi ai passanti rompendo in modo sconvolgente quell’immagine stereotipata di donna del sud di mezz’età avvolta in un mesto abituccio da casa. Nella loro vita, la gioia più grande è stata poter giocare e raccontare le fiabe della buona notte ad Arturo, anche se menomato, o forse l’hanno amato ancor di più proprio perché menomato e completamente dipendente da loro. Per Arturo le tre donne sognano una cameretta tutta per lui con una finestra, un termosifone e per questo sanno che è venuto il giorno di darlo via, di affidarlo ad una struttura che possa aiutarlo a crescere, perché è diventato troppo grande per restare con le tre “mamme” in quel minuscolo spazio pieno di spazzatura.
Lo spettacolo si chiude con il momento dell’addio tra Arturo e le tre donne mentre sta passando la banda. Ogni situazione quotidiana si fa danza, le musiche agiscono trasformativamente risemantizzando le azioni e sull’onda delle musiche, l’intelligenza creativa delle attrici e attori sposta l’accento sul riso là dove c’era disperazione o rabbia, la dolcezza prende dimora tra le macerie delle vite e il calore riscalda anche in una stanza senza termosifoni.
C’era bisogno di uno spettacolo che curasse le ferite di tutti e tutte noi, orfani/e di qualcosa, testimoni di continue violenze perpetrate su corpi femminili a noi più o meno vicini e sprofondati/e in qualche forma di abisso miserevole. C’era bisogno di continuare a stare sul tema della maternità e sulle sue infinite possibili modalità di esplicazione, di ribadire la capacità delle donne di accogliere e ricominciare non da vittime, ma da sopravvissute pronte a rimettersi in piedi.
Teatralmente è uno spettacolo perfetto nei tempi, nello scorrere drammaturgico delle scene, non c’è una sbavatura, non c’è un gesto fuori posto. La lingua siciliana si fa a tratti grammelot e non ostacola affatto la comprensione, diventa suono il cui senso arriva dal gesto e dalla situazione, non dalle singole frasi pronunciate che potrebbero anche essere in qualunque lingua o anche in una lingua completamente finta. La bravura delle attrici è emozionante, la danza di Simone Zambelli lascia senza fiato. Tutto l’insieme assurge a coreografia, rimanda all’idea della coralità del lavoro di squadra quale sempre dovrebbe essere il teatro. Un teatro non di divi in scena, ma di emozioni che partendo dal mondo com’è lo trasforma attraverso gli occhi e i corpi degli e delle artiste.
Il teatro vive nel sogno, ha affermato nel corso di un incontro pandemico on line Emma Dante lo scorso anno discutendo di Misericordia all’interno di un gruppo di artisti legati al regista Carlos Branca, ma il sogno deve essere superato dalla realtà che lo circonda e lo spettacolo deve farsi gesto politico.