La regia di Emma Dante, insieme alla direzione di Oksana Lyniv e alla dierzione del coro di Gea Garatti Ansini, connotano il nuovo allestimento de “I vespri siciliani” di Giuseppe Verdi al Comunale, in coproduzione con il teatro Massimo di Palermo, il San Carlo di Napoli e il Teatro Real di Madrid. Lo spettacolo coinvolge il pubblico grazie a idee registiche efficaci che sostengono anche le parti musicalmente meno appassionanti consentendo poi ai momenti topici della partitura di risaltare come diamanti senza che ci sia mai una caduta di stile o un istante di noia per lo/la spettatore/trice.

Già dall’Ouverture il genio di Emma Dante si manifesta con la comparsa dei mimi- pupi che, come retti da invisibili fili, combattono contro nemici altrettanto invisibili e, di conseguenza, inafferrabili, come spesso sono le forze che opprimono un popolo intero. La battaglia mimata si integra perfettamente con i ritmi serrati della prima parte dell’Overture che fa presagire tensioni che deflagreranno nel prosieguo. La regista percepisce “I vespri siciliani” come un’opera portatrice di un senso di rivolta: quella del popolo siciliano contro gli oppressori francesi, secondo il libretto, e che, nella messiscena, diventano malavitosi in tuta acetata, usurpatori delle tradizioni profonde dei siciliani capaci qui di rivoltarsi ai sopprusi alzando la testa così come hanno fatto realmente i siciliani negli ultimi anni contro i mafiosi innalzando i vessilli dell’antimafia. Da questa suggestione della rivolta degli opressi alla mafia che soffoca la libertà del popolo, nasce l’idea di rappresentare il fratello della Duchessa Elena, assassinato dai francesi, con il volto di Borsellino, accomunando quindi la lotta di Elena alla lotta di Rita Borsellino nei confronti della criminalità organizzata. Entusiasma il fatto che la regista riesca a ricavarsi sempre spazi di autonomia nelle sue messinscene pur nella complessa macchina teatrale operistica creando elementi interessanti sia visivamente che concettualmente.

Emma Dante non tradisce mai il suo modo di operare tipico che conosciamo dagli spettacoli di prosa, quando lavora a regie liriche. Pur non potendo fare una regia d’opera con due bauli e pochi oggetti scenici, come nel “Tango delle capinere”, riesce a creare dispositivi scenici con pochi elementi significativi che tornano, si modificano, diventano mille cose diverse (come un cancello che può essere un carcere, un nido d’amore forse). Ogni volta che affronta un opera trova il modo per movimentare l’azione scenica senza invadere il campo musicalle, di imprimere un suo tratto distintivo, senza prevaricare sul resto, fa grande teatro pur nelle strettoie dei vincoli del sistema operistico dando soddisfazione ai suoi ammiratori, senza dispiacere al difficile zoccolo duro dei melomani più tradizionalisti.

Musicalmente l’apice del primo atto, e forse momento più significativo dell’intera opera, risiede nel canto di Elena, interpretata dalla ottima Roberta Mantegna, un canto imposto dalla volontà degli oppressori come esercizio di potere. La trascinante melodia che si eleva dal palcoscenico e le parole che pronuncia la personaggia tra i vocalizzi, incitano i concittadini a prendere in mano il loro destino e l’intervento del coro, terminata la cabaletta, assume la forza di una presa di coscienza della propria cattività e dell’avvio di una sommossa. La regia amplifica questo momento di universale commozione per i popoli oppressi, facendo sfilare nella piazza palermitana in cui avviene l’azione scenica, i gonfaloni coi volti di alcune vittime di mafia creando un effetto di vicinanza e immedesimazione nei fatti narrati dal libretto di Eugène Scribe riferiti al 1282.

Concluso il canto di Elena e dispersa la folla, segue un momento a voci sole. In scena, insieme alla soprano, anche il baritono Franco Vassallo nei panni di Monforte e il tenore James Lee in quelli di Arrigo. L’intreccio delle voci, con accenti di dolore e angoscia, risulta interessantissimo all’ascolto e, come in altri momenti, risalta il carattere sperimentale di quest’opera in cui Verdi cerca soluzioni compositive nuove e diverse da quelle precedentemente da lui utilizzate e da quelle consolidate dalla tradizione.

A partire dalla scrittura dei Vespri, sottolinea la critica, Verdi prova a disarticolare gli schemi pre definiti cercando di rendere più dialogiche le arie ad esempio, meno isolate rispetto al tradizionale recitativo, sperimenta modalità di adesione della musica alla situazione drammatica esposta esprimendo il conflitto psicologico dei protagonisti. Verdi utilizza la complessa drammatugia di Scribe ideando una variazione continua di stili e motivi onde far risaltare i contrasti ad esempio tra i due cori: quello degli usurpatori francesi e quelo dei siciliani, come anche tra i personaggi di primo piano. Alterna principi di rivolta, tumulti, ad assoli intimi, accesi alterchi a balletti, come alla festa del terzo atto; mescola elementi musicali propri del folclore, a arie sentimentali, il tutto innestato su uno sfondo storico che a tratti fa emergere in primo piano e in altri relega sullo sfondo per concentrarsi sui conflitti interiori. Nei momenti in cui il libretto è meno interessante, il testo meno essenziale, l’attenzione dell’uditorio si riesce a concentrare sull’accompagnamento orchestrale, sui timbri scelti nei diversi momenti drammatici traovando sempre sonorità ricche di fascino. La regia “sfrutta” la varietà di stili, situazioni, la molteplicità dei personaggi e situazioni secondarie per creare movimento, per tenere desta l’attenzione del pubblico con controscene, balletti, oggetti scenici intriganti, facendo buon uso della possibilità di spostare i diversi dispositivi scenici allestiti, di atto in atto.

Se nel primo e nel quinto atto al centro del palco è sistemata la riproduzione della palermitana fontana di Piazza Pretoria detta “della vergogna” per la presenza di statue di nudi, scenario utile alla rappresentazione dei gruppi sociali contrapposti e delle loro lotte, nel secondo atto è la barca da cui scende Procida a campeggiare offrendo la possibilità di controscene di danzatrici con l’utilizzo di reti da pesca. Nella prima parte del terzo atto la scena è organizzata attorno a una specie di trono davanti a un fondalino con un motivo che richiama la ceramica siciliana e tre enormi Teste di Moro tipiche della ceramica di Caltagirone che raccontano anch’esse della vendetta di una giovane verso uno straniero seduttore e poi traditore, teste che ritroviamo poi nella scena del ballo come copricapi degli invitati. Se inizialmente la vendetta che si intende mettere in atto è quella di Elena verso l’uccisore del fratello Federico, nel terz’atto apprendiamo che anche Arrigo avrebbe motivo di vendicarsi di Monforte per aver rapito e poi ucciso sua madre dopo la sua nascita, ed ecco che l’evocazione della giovane con in braccio il figlioletto ad opera di una mima della Scuola Galante Garrone, motiva simbolicamente la presenza delle teste di Moro sul palco che quindi non solo “arredano” la dimora siciliana di Monforte, ma ricordano continui sopprusi da parte di dominanti su soggetti dominati ed in particolare di uomini su donne. Già nel secondo atto abbiamo asistito al rapimento da parte dei francesi delle giovinette future sposte, durante i preparativi dei festeggiamenti per le loro nozze collettive dopo la gioiosa tarantella, tra l’altro molto ben coreografata. Un colpo di genio narrare il ratto delle fanciulle come un trattare esseri umani da “spazzatura”, da soggetti privi di diritti, come fossero un sacco di immondizia, facendo in modo che i rapitori, nel movimento scenico, rovescino le gonne delle giovinette che diventano sacchi neri della spazzatura. Alle ballerine, una volta che i colleghi uomini chiudono il laccetto giallo del sacco sulle loro teste, non resta che accucciarsi sui talloni per completare l’effetto di sembrare un sacco di immondizia pronto per essere caricato sulle spalle dei rapitori, perdendo le sembianze umane.

Tanti altri sono i momenti in cui Emma Dante ha creato scene e controscene sorprendenti, degno di nota su tutti l’animarsi della statua di Santa Rosalia, protettrice di Palermo, portata in processione dai monaci dell’atto quarto all’avvicinarsi dell’esecuzione di Arrigo e Elena sul patibolo. La santa vergine che rifiuta di sposarsi poco prima delle nozze ritirandosi in convento, ha elementi in comune con Elena, la sua citazione registica ha forse anche a che fare con il fatto che nella credenza popolare si intende che ella abbia salvato la città dalla peste nel ‘600, evocarla forse intendeva auspicare la vittoria dei siciliani sulla dominazione, mortifera, dei francesi/malavitosi, da allontanare come una peste. Sta di fatto che Emma Dante fa sì che quella che credevamo una statua di gesso si animi e danzi tutta addobbata di oro con la croce in mano. i suoi movimenti fanno pensare a un vacillare della fede e della speranza davanti al patibolo e a un continuo loro rianimarsi con l’annuncio della sospensione dell’esecuzione, la riconciliazione tra le fazioni in lotta e l’annuncio del matrimonio di Elena e Arrigo. La statua della santa resta in scena anche a sipario chiuso nell’intervallo fino al riaprirsi del sipario sulal quinto e risolurorio atto facendo presagire che la felicità è sempre in bilico, nulla è definitivo se non la morte.

Musicalmente non si può tacere la bravura dei solisti tra cui spicca la già ricordata Roberta Mantegna che svolge il proprio ruolo con sobrietà, contegno, ma anche con forza e precisione, convincente e commovente tanto nei momenti solistici che nel duetto del 4° atto con Arrigo. Applaudito il Procida del basso Riccardo Zanellato come è stato apprezzato Franco Vassallo nei panni di Monforte, particolarmente intenso nell’espressione del dilemma interiore del terzo atto nel duetto con Arrigo James Lee ove l’intreccio vocale riesce a dare conto del grumo indistricabile tra la diffidenza e l’odio di Arrigo, con il suo stesso desiderio di abbandonarsi a un affetto filiale e dall’altra parte della volontà di riparare al torto fatto al giovane confliggente con il suo dovere di uomo politico esecutore, sul territorio siculo, della volontà dei conquistatori francesi.

Il coro, o meglio il doppio coro di francesi e siciliani diretto ottimamente da Gea Garatti Ansini, ha un ruolo fondamentale in quest’opera. Efficace il coro femminile fuori scena a voce sola esprimente la gioia futura delle spose nel secondo atto ove la melodia lieta si intercala alle frasi spezzate dei congiurati che chiedono vendetta. D’effetto il de profundis di un coro maschile fuori scena nel quarto atto mentre le donne invocano grazia in scena attorno alla statua della santa.

L’orchesta ha i suoi momenti di grande protagonismo nell’Overture iniziale e nelle più brevi introduzioni dei seguenti atti, quindi emerge a tratti accompagnando momenti della drammaturgia e ci si ferma ad ascoltarla nei momenti di sospensione, quando la trama drammaturgica sembra indebolirsi, lì Verdi sembra aver dato il meglio tenendo insieme tutte le componenti così diversificate di questa lunga e complessa opera. La direttrice Lyniv risulta sobria, delicata e mai soverchiante rispetto alle voci. Complessivamente siamo di fronte a uno spettacolo equilibrato in cui tutte le componenti, coro, orchestra, voci solistiche e regia, si tengono senza sbilanciarsi creando un insieme godibile.

Richiamo in chiusura ancora un elemento interessante della regia di Dante che si interconnette con gli elementi musicali e rafforza l’unitarietà della narrazione: se nel secondo atto la messinscena usa le reti da pesca come velo da sposa, nel finale dell’opera le stesse reti simbolo della semplice onestà del popolo di lavoratori siciliani derivante dallo svolgere con perseveranza un duro lavori come quello dei pescatori, diventano strumento per ingabbiare gli usurpatori liberandosi dal loro giogo. L’onta subita dai siciliani che ribolliva negli staccati del coro, nelle parole spezzate pronunciate in diversi momenti come subito dopo il ratto delle spose a giurare vendetta, cantata da Elena più e più volte, quell’onta sia collettiva che subita individualmente dai personaggi principali, viene vendicata e possono tornare a sfilare i gonfaloni con le immagini delle vittime di stragi di mafia a segno della possibilità del popolo di vincere sull’oppressore.