Da oggi venerdì 7 maggio al 19 settembre la Fondazione MAST esporrà Displaced, la prima mostra antologica del fotografo Richard Mosse, curata da Urs Stahel. Tra le opere si potranno osservare 77 fotografie di grande formato, oltre ai lavori più recenti della serie Tristes Topiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana. La mostra include anche due grandi videoinstallazioni immersive, The Enclave (2013) e Incoming (2017), un video wall a 16 canali Grid (Moria) del 2017 e il video Quick (2010).

La fotografia che racconta migrazione,conflitto e cambiamento climatico

Come spiega il curatore Urs Stahel, Mosse all’interno delle sue fotografie non si concentra su momenti iconici legati ad determinato un evento, piuttosto preferisce riflettere sul contesto, su ciò che precede o su ciò che segue uno specifico avvenimento. Le sue opere infatti non riportano il momento culminante, ma l’effetto che la nascita e la catastrofe hanno sul mondo. L’artista rinuncia alla fotografia documentaria, cerca di sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche sfruttando nuove tecnologie, specialmente di derivazione militare.

La mostra si sviluppa su tre spazi della Fondazione MAST: Gallery, Foyer e Livello 0. La Gallery ospita i primi lavori di Mosse, risalenti ai primi anni 2000, mentre termina gli studi universitari. Le sue prime fotografie sono state scattate in Bosnia, in Kosovo, nella Striscia di Gaza e lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti. La peculiarità di queste prime opere risiede nella quasi totale assenza di figure umane: l’obiettivo è quello di documentare le zone di guerra senza mostrare il conflitto, creando così delle immagini emblematiche di distruzione. Inoltre nello stesso spazio possiamo trovare Infra, la serie che ha reso celebre l’artista: Mosse si reca nella Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Nord Kivu, dove si trova un minerale altamente tossico, ovvero il coltan, da cui si estrae il tantalio, materiale ampiamente utilizzato nell’industria dell’elettronica. Il Congo, una delle zone più ricche dell’Africa, è da anni teatro di guerre e disastri umanitari. Per questi scatti il fotografo irlandese ha scelto Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi. L’intenzione è quella di scardinare i criteri tipici della fotografia di guerra.

Nel Foyer possiamo invece trovare Heat Maps e i più recenti lavori Ultra e Tristes Tropiques. In Heat Maps Mosse riflette sulla migrazione di massa: esplora i campi profughi Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e molti altri. Per fare ciò impiega una termocamera capace di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi, ottenendo le “heat maps”, le mappe termiche. Tra il 2018 e il 2019 l’artista sposta il suo interesse di ricerca dai conflitti umani alle immagini della natura; in Ultra utilizza la tecnica della fluorescenza UV per mostrarci ciò che rischiamo di perdere a causa dei cambiamenti climatici. Tristes Tropiques è la sua opera più recente e si pone l’obiettivo di documentare, attraverso la tecnologia satellitare, la distruzione dell’ecosistema ad opera dell’uomo: grazie a quella che viene definita “counter mapping”, ovvero una forma di cartografia di resistenza che attraverso fotografie ortografiche multispettrali riesce a mettere in luce i danni ambientali difficilmente visibili dall’occhio umano.

Al Livello 0 trovano invece spazio la videoinstallazione The Enclave, la videoproiezione Incoming e il video Quick, un approfondimento sul percorso artistico di Mosse. La videoinstallazione è divisa in 6 parti e mette in mostra il contrasto tra la meravigliosa natura della foresta del Congo e la violenza dei soldati. Incoming è un’installazione audiovisiva divisa in tre parti, realizzate grazie alla stessa tecnologia utilizzata per Heat Maps, la termografia a infrarosso: nella prima parte vengono ripresi i preparativi per il decollo di jet militari; la seconda e la terza parte hanno invece come protagonisti i migranti.

La mostra è accompagnata da un catalogo contenente tutte le immagini esposte, oltre a un saggio critico del curatore Urs Stahel e testimonianze di Michel J. Kavanagh, inviato in Congo e in Africa dal 2004, Christian Viveros-Fauné, curatore capo presso l’University of South Florida Contemporary Art Museum, e Ivo Quaranta, professore di Antropologia culturale presso l’Università di Bologna.

Gemma Fabellini

ASCOLTA L’INTERVISTA A URS STAHEL: