Mi sarebbe piaciuto che Sanpa, la serie Netflix su San Patrignano di cui oggi parlano tuttə, fosse uscita 10 o 15 anni fa. Intendiamoci: fa sempre bene che ci siano spunti per riflettere su temi importanti e anche la riflessione per certi aspetti storica ha una funzione importantissima nella crescita delle consapevolezze. Quel che mi preme sottolineare, però, è che non c’era bisogno di aspettare così tanto per avere gli elementi, siano essi culturali e concettuali, ma anche giudiziari e probatori per intervenire sull’argomento.

Dipendenze, la serie Netflix sarebbe potuta uscire prima

Dieci o quindici anni fa, ad esempio, c’erano già gli elementi culturali e concettuali per farsi un’idea sull’approccio utilizzato nel centro di San Patrignano. C’erano già stati Paulo Freire, ma anche Franco Basaglia. C’era stato anche Don Andrea Gallo e la comunità di San Benedetto al Porto, per fare alcuni esempi. Esempi molto lampanti dell’abominio rappresentato dalle istituzioni totali, dalla violenza e dalla coercizione come metodo di cura. Un’idea colpevolizzante e para-religiosa secondo la quale per stare bene e guarire, in questo caso da una dipendenza ma più in generale da un’oppressione, sia necessario espiare un peccato.

In questo lasso di tempo, inoltre, tutti i dubbi e le perplessità, ma anche gli elementi probatori, le inchieste e i processi, indipendentemente dalla loro conclusione, avevano già fornito sufficienti evidenze su cosa avvenisse a San Patrignano e sarebbero bastati per convincersi che quell’approccio non era quello giusto.
Le possibilità per informarsi su quello che accadeva nel centro romagnolo erano presenti anche più di un decennio fa e, se l’informazione mainstream a volte ha minimizzato fatti gravissimi, esisteva già la cosiddetta “controinformazione”, l’informazione prodotta da testate indipendenti.

In questi dieci o quindici anni, però, ci sono state tante ulteriori sofferenze per i tossicodipendenti, a partire da una legislazione che non solo non è cambiata nell’impostazione, ma ha addirittura esacerbato la repressione. Faccio riferimento alla legge Fini-Giovanardi che, equiparando le droghe pesanti a quelle leggere, ha prodotto carcerazione e stigma per decine di migliaia di persone. Quella legge è stata in vigore otto anni prima di essere dichiarata incostituzionale e possiamo solo immaginare quanta sofferenza abbia prodotto.

In moltə, commentando la serie Netflix, ora sottolineano come il modello San Patrignano sia stato possibile perché fortemente sponsorizzato dalle istituzioni stesse e, più in generale, da una narrazione attorno alle sostanze e alla tossicodipendenza che non solo caldeggiava, ma in una certa misura sponsorizzava la repressione anche violenta dei consumatori di droghe e di chi ne diventava dipendente.
Ciò dovrebbe illuminare anche chi ancora non si è capacitato dei danni del proibizionismo: oltre agli indiscussi benefici alle narcomafie che esso continua a produrre, esso intossica culturalmente l’ottica con cui si guarda al consumo e all’abuso di sostanze e le possibili soluzioni del problema.

Più in generale, attorno alla questione delle droghe nel nostro Paese ci sono dei giganteschi rimossi. Il più grande, l’ho appena citato, attiene alle conseguenze che le politiche stesse anti-droga in chiave proibizionistica hanno prodotto, dunque alle responsabilità che ha la politica nella mancata soluzione del problema, sia dal punto di vista sociale, ma anche da quello terapeutico.
Un altro grande rimosso nel dibattito fortemente ideologizzato sulle sostanze attiene alle vittime della dipendenza. Non vi è mai stata in Italia un’analisi seria che si focalizzi sulle ragioni che hanno portato le persone ad utilizzare sostanze, a diventarne succubi, ma anche sulle modalità e le circostanze di accesso e reperimento alle sostanze stesse.
Finché questi aspetti, che sono sia sociologici che psicologici, non verranno presi in considerazione, il nostro Paese non potrà mai compiere un salto culturale su questo tema.