La nozione di rape culture, o cultura dello stupro, nasce negli anni Settanta, quando la regista Margaret Lazarus ne fa il titolo di un documentario sulla rappresentazione dello stupro nel cinema. Risale agli anni Novanta, invece, una definizione più estesa, con il libro Transforming a Rape culture: questo saggio definisce la cultura dello stupro come qualcosa di diffuso, un sistema culturale che incoraggia l’aggressività maschile e minaccia di continuo, ma implicitamente, le donne.

La cultura dello stupro è patriarcale: la terza puntata del podcast Cronache di rabbia

Un primo nodo da sciogliere per capire meglio la cultura dello stupro sono i comportamenti che normalizzano involontariamente la violenza sessuale e permettono agli uomini di fare determinate cose che, invece, alle donne sono negate. Il controllo implicito dei comportamenti femminili rende i meccanismi violenti più subdoli di come sembri a primo acchito: la parola delle donne, per esempio, viene sistematicamente screditata in base a come hanno reagito a una violenza, in opposizione a come invece avrebbero dovuto reagire per essere credute. Questa forma di controllo implicita si esprime ed estrinseca soprattutto nei casi di violenza sessuale: si pensi per esempio al caso di Ciro Grillo, figlio del politico Beppe, denunciato insieme ad alcuni amici di violenza sessuale; già nel 2021, a processo ancora in corso, Grillo difendeva il figlio in un video pubblicato online, screditando a priori la testimonianza della vittima e definendola falsa. Ma l’esempio di Beppe Grillo racconta anche qualcos’altro: una cultura in cui le donne sono vittime e oggetti passivi del desiderio maschile.

Un ulteriore aspetto da considerare nell’universo della cultura dello stupro è la questione legata al cosiddetto revenge porn, che manca ancora di una vera e propria definizione univoca, e il rapporto tra revenge porn e intelligenza artificiale: cosa costituisca materiale porno, infatti, non è un dato immediato. In più, il materiale pornografico realizzato tramite l’intelligenza artificiale (i deepfake) rappresenta un problema dal punto di vista giuridico. Come considerare queste immagini? Parlando in senso stretto, non sono foto intime condivise senza il consenso, perché non sono vere. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale per intervenire sul corpo delle donne, sia per spogliarle che per vestirle, mette in luce come il vero scopo sia essere un altro tipo di controllo sul loro corpo. 

È questo il tema principale della terza puntata di Cronache di Rabbia, un podcast sui femminismi per rileggere il presente. L’ospite di questa puntata è Giulia Blasi, scrittrice e giornali del Post.
Cronache di Rabbia è disponibile su tutte le piattaforme di podcasting e ogni due settimane di martedì in onda su Radio Città Fujiko alle 14.

ASCOLTA LA TERZA PUNTATA:
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