Associazioni ambientaliste e ong che si occupano di Paesi poveri sono concordi nel ritenere i risultati di Cop26, la conferenza sul clima svoltasi a Glasgow, molto deludenti. Dalla mancata messa al bando del carbone alle ambiguità sul taglio ai sussidi alle fonti fossili, fino al non finanziamento di un fondo per i Paesi poveri che subiscono danni causati dai cambiamenti climatici, i punti critici dell’accordo sono numerosi.
A vedere il bicchiere mezzo pieno sono solo coloro che a Glasgow dovevano salvare la propria reputazione, cioè gli esponenti politici che si sono trovati a negoziare. Il difficile equilibrio tra economia e ambiente ancora una volta sembra pendere in favore della prima e sui giornali occidentali la responsabilità è stata spesso scaricata su potenze emergenti, come India e Cina.

Ieri, commentando i lavori di Cop 26, il ministro italiano alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha sostenuto che forse l’impianto delle Cop va ripensato. In particolare, Cingolani ha sottolineato quanto sia difficile, quasi impossibile, trovare un accordo unanime tra quasi duecento Paesi, mentre sia quasi inevitabile una mediazione al ribasso.
Prendendo spunto da questa osservazione proviamo a perlustrare un’ipotesi diversa, che non oscilli tra il tutto e niente: è possibile pensare ad un salvataggio a più velocità? È possibile che esistano Paesi e potenze che contro la crisi climatica procedano in modo virtuoso anche senza un accordo globale? È possibile che ciò possa influenzare l’economia globale in modo da indurre anche gli attuali reticenti ad incamminarsi su quella strada?

Crisi climatica, i punti critici del documento finale di Cop26

Il punto più eclatante e più discusso è sicuramente quello relativo al carbone. In molti hanno sottolineato come la richiesta dell’ultimo minuto dell’India, con la modifica da “phase out” a “phase down” (da “eliminazione” a “riduzione”) dell’utilizzo della fonte fossile, abbia di fatto svuotato la portata dell’accordo.
«Addirittura non si riduce nemmeno tutto il carbone – osserva ai nostri microfoni Antonio Tricarico di ReCommon – perché laddobve ci sarebbero queste fantomatiche tecnologie di assorbimento delle emissioni, allora potrebbe essere ancora utilizzato».

Altro punto dolente riguarda il taglio ai sussidi alle fonti fossili. Di per sè sembrerebbe una buona notizia, ma è un aggettivo a rischiare di vanificare tutto. I sussidi che verranno azzerati, infatti, sono solo quelli considerati “inefficienti”. Ad oggi sono ancora 5,9 trilioni di euro l’anno i sussidi in questo campo.
Molto egoistico, inoltre, è sembrato il nulla di fatto sul fondo “loss & damage”, risorse che sarebbero servite a risarcire i Paesi vulnerabili dalle perdite e dai danni provocati proprio dai cambiamenti climatici. «I principali Paesi inquinatori, cioè quelli che storicamente hanno questa responsabilità – sottolinea Tricarico – non sono andati oltre l’impegno dei 100 miliardi della finanza per il clima, che in realtà è già stato disatteso perché doveva essere raggiunto al 2020».

ASCOLTA L’INTERVISTA AD ANTONIO TRICARICO:

Crisi climatica: un’uscita a più velocità?

A sottolineare l’ipocrisia dei Paesi occidentali che tentano di scaricare la responsabilità degli obiettivi poco ambiziosi su India, Cina ed altri Paesi emergenti è Marica Di Pierri, giornalista, ricercatrice e co-fondatrice del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali. «Queste opposizioni a Cina e India che sono considerate come una zavorra nelle negoziazioni sono un po’ un alibi e uno scaricabarile – commenta De Pierri – Se andiamo a vedere quelli che sono gli impegni di riduzione anche dei Paesi che raccontano di essere un esempio dal punto di vista climatico sono tutt’altro che sufficienti, come si può verificare sul sito di Climate Action Tracker».

In altre parole, se il meccanismo unanimistico di Cop può rappresentare un ostacolo all’ambizione degli obiettivi, nulla vieta a Stati virtuosi di fare di più ed impegnarsi oltre quanto sancito dagli accordi.
«Ci si preoccupa molto degli impatti sull’economia – evidenzia Tricarico – e, specialmente in un’ottica di dinamiche di potere, ci si preoccupa che alcuni campioni nazionali possano perdere peso e quote di mercato. Questo è un elemento che frena perché ciascuno vuole essere sicuro che nella transizione non perda potere e dominio».
Esiste inoltre un problema di finanza, che è quella che ancora sostiene ancora molto i combustibili fossili, che si aggiunge ad un problema di trasferimento di tecnologie, che già esistono, ma sono sottoposte a licenze e regole commerciali. Infine le questioni geopolitiche di sicuro non aiutano uno slancio in avanti.

Ad “incoraggiare” gli Stati a fare la propria parte, però, secondo De Pierri potrebbe esserci lo strumento legale. In sempre più contesti attiviste e attivisti portano in tribunale gli Stati o le aziende per l’inazione climatica e talora registrano anche vittorie con sentenze apripista.
«Ci vuole anche visione politica», aggiunge Tricarico, cioè Stati lungimiranti che anticipino la transizione perché capiscono che si tratta di un buon investimento per il futuro, non solo per ciò che concerne l’ambiente, ma anche perché attrezzarsi per tempo aiuterà a fronteggiare meglio anche i contraccolpi economici della crisi climatica.

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