È cominciato oggi, 14 ottobre, il processo per l’uccisione di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e ucciso nel 2016. Gli imputati sono quattro membri dei servizi di sicurezza egiziano, che devono rispondere dell’accusa di aver sequestrato, torturato e ucciso il giovane.
Non è stato facile arrivare al processo, principalmente a causa della reticenza delle autorità egiziane, che fin dall’inizio si sono rifiutate di collaborare, cercando al contrario di depistare le indagini e insabbiare le prove. Ma sarà difficile lo svolgimento stesso del processo, dal momento che i quattro imputati non saranno in aula.

Le difficoltà del processo per l’uccisione di Giulio Regeni

A non essere d’aiuto, in questi anni, è stato anche l’atteggiamento dei vari governi italiani, che è sembrato più orientato a voler conservare le buone relazioni commerciali con l’Egitto piuttosto che arrivare ad avere verità e giustizia per la morte di Giulio Regeni. Tuttavia qualcosa starebbe cambiando, dal momento che Palazzo Chigi ha comunicato ieri che si costituirà parte civile nel processo.
Gli ex presidenti del Consiglio ed altri membri dei governi che si sono avvicendati dal 2016 ad oggi, inoltre, verranno sentiti in aula in qualità di testimoni.

La stessa assenza degli imputati, causata dall’ostruzionismo delle autorità egiziane, rappresenta una difficoltà nella celebrazione del processo. In particolare, l’Egitto non ha comunicato alla magistratura italiana l’indirizzo degli imputati a cui notificare gli atti del processo stesso proprio per evitare che i quattro fossero giudicati. Sebbene sia possibile svolgere un processo in contumacia, secondo l’ordinamento italiano non è possibile giudicare un imputato che non sia a conoscenza delle sue accuse.
«Questo probabilmente apre la strada all’impunità degli imputati – osserva ai nostri microfoni il giornalista e ricercatore Giuseppe Acconcia – che anche se venissero condannati è possibile che l’Egitto decida di non estradarli».

Le ombre che il processo dovrà chiarire

Oltre alle responsabilità delle autorità egiziane, però, il processo dovrebbe fare chiarezza anche su altre ombre, che riguardano il ruolo delle autorità italiane. Acconcia ricorda gli accordi bilaterali tra Italia ed Egitto e le relazioni commerciali a proposito dell’impianto Eni di Zohr, ma anche le forniture di armi verso il Cairo e, non ultimo, il ruolo egiziano in Libia che incide nella vicenda dei flussi migratori.
Per il giornalista e ricercatore, inoltre, andrà chiarito anche il ruolo che l’ambasciata italiana ebbe nella vicenda di Regeni, in particolare come agì nel momento della sua sparizione, così come sarà scandagliata anche la responsabilità dell’Università di Cambridge, per cui Giulio era ricercatore.

«Secondo alcuni analisti – aggiunge Acconcia – qualora i quattro imputati venissero condannati l’Egitto potrebbe usare la vicenda di Patrick Zaki come merce di scambio con l’Italia». In altre parole, la libertà di Zaki potrebbe essere offerta come gesto distensivo nei confronti dell’Italia.
Tutto ciò, però, avviene in un contesto repressivo che non riguarda solo ricercatori italiani in Egitto o studenti egiziani in Italia. «Sono 60mila i prigioni politici in Egitto – ricorda Acconcia – C’era la speranza che, con l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca molti venissero rilasciati. Qualcuno è stato effettivamente scarcerato, ma la pressione statunitense fino a questo momento non è sufficiente».

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